Doi Suthep, il tempio più sacro e venerato di Chiang Mai

A Chiang Mai i templi certamente non mancano e devo confessare che, ad un certo punto, la sensazione è di averne quasi abbastanza. Ma c’è un posto che sarebbe da sciagurati trascurare. E’ il luogo simbolo della religiosità thailandese e, allo stesso tempo, una delle più alte manifestazioni dell’arte Lanna nel nord del paese. Parlo del Wat Phra That Doi Suthep, o come più comunemente lo chiamano gli autoctoni, il tempio Doi Suthep.

In realtà, il Doi Suthep è una montagna, anche piuttosto elevata, che sorge a circa 15 chilometri da Chiang Mai. Su uno dei suoi fianchi, immerso in una lussureggiante foresta tropicale quasi immacolata (e protetta dall’istituzione di un parco omonimo), sorge un tempio, costruito a partire dal 1382 e più volte restaurato e rimaneggiato. Questo Wat è uno dei luoghi più storicamente e spiritualmente significativi in ​​Thailandia e, come tale, è meta di un corposo pellegrinaggio. Di conseguenza, è frequentato da frotte di thailandesi (e non solo) che affrontano il caldo e la scalata pur di poter depositare un’offerta su uno dei suoi numerosi altari dorati. Ai turisti spetta solo il compito di osservare, fare da comprimari e, al più, partecipare con rispetto e in assoluto silenzio ai riti che si svolgono qui.

La scalinata che conduce al tempio, dal basso

Organizzare una visita al Doi Suthep è relativamente facile. Basta recarsi presso uno dei tanti posteggi di Songthaew (pic-up coperti, con sedute laterali di legno, scomodissime) di Chiang Mai e contrattare una andata e ritorno al tempio. Il prezzo dipenderà dall’orario (se è troppo tardi è più facile che l’autista ceda presto, sperando così di poter effettuare qualche altra corsa); dal tempo (se piove saremo noi, probabilmente, a cedere prima); dalla presenza di altri turisti interessati all’escursione (rendendo possibile la divisione della cifra per il numero di partecipanti).

In alternativa, è possibile prendere un tuc-tuc, ma io sconsiglio vivamente di ricorrere a mezzi traballanti e poco sicuri quando si affrontano molti chilometri su una montagna thailandese. Per lo stesso motivo è meglio lasciar perdere anche il motorino. La cilindrata media – almeno ai tempi in cui sono andato io – era tra i 90 e i 100 cc. Insufficiente ad affrontare la salita e pericolosamente inadeguato per la successiva, ripidissima, discesa. Resta solo il taxi, decisamente molto più costoso di tutti i mezzi esaminati prima.

Un angolo del Doi Suthep

Una volti giunti nei pressi del tempio l’autista ci deposita presso la biglietteria e ci comunica il tempo a disposizione (in genere un’ora e mezza) per completare la visita. Meglio non sgarrare, perché gli autisti di Songthaew sono particolarmente pignoli in tema di rispetto degli orari pattuiti. Ad ogni modo, se doveste ritardare e non trovare più il vostro mezzo, poco male: il piazzale antistante la biglietteria è letteralmente intasato di songthaew rossi e non sarà difficile trovarne uno che ti vende mezza panca…

Superato l’ingresso, alla base della collina, ecco che ci troviamo davanti alla prima scelta cruciale della giornata. Come salire al tempio? Scale o funicolare? Nel 2005 in realtà non esistevano alternative: occorreva affrontare la lunga e scenografica scalinata, protetta dai due Naga (serpenti-dragoni) dorati, sperando di raggiungere la sommità del tempio nelle condizioni di forma meno danneggiate possibili. La funicolare è venuta dopo. Che dire, quindi? I 309 scalini non sono particolarmente ripidi e l’altitudine (il tempio è a 1056 metri di altezza) rende il clima più fresco. Direi che l’andata (in salita) potrebbe essere effettuata con la funicolare (200 baht, mi pare) e il ritorno a piedi. Sarebbe un onorevole compromesso fra tradizione e modernità che non intaccherebbe il nostro amor proprio.

Il chedi dorato al centro del complesso

Il Wat Phra That è un complesso di templi eretti intorno ad un favoloso chedi placcato d’oro massiccio alto circa 24 metri. Questo maestoso stupa, nelle giornate di sole, risplende come un faro e si può scorgere da parecchi chilometri di distanza. All’interno, lungo le sezioni concentriche che contraddistinguono la pianta architettonica del complesso, è possibile ammirare tutto ciò che caratterizza il buddismo thailandese di scuola Theravada: altari, pinnacoli, piccoli tempietti votivi e sopratutto una profusione di statue di Buddha di tutte le dimensioni e posizioni immaginabili. Alcune di queste sono molto antiche.

Intorno al chedi è possibile ammirare quattro splendidi ombrelloni cerimoniali, anch’essi d’oro, aggiunti nel XVI secolo. Le loro aste sono oggetto di un culto particolare. I pellegrini le ricoprono di sottili lamine d’oro e così pensano di ricavarne qualche merito per la vita futura. Tale abitudine ha finito per sformare grottescamente i contorni di questi magnifici manufatti, un po’ come avviene in Myanmar per tutti gli oggetti che hanno un benché minimo valore religioso (leggi l’articolo qui).

Il tempio, come già accennato, è frequentato soprattutto dalle persone che hanno un duplice intento: vengono a pregare e – mentre ne hanno l’occasione – chiedono qualche grazia. Gli altari con le bacchette d’incenso non si contano, sono dappertutto. Così come i contenitori votivi dentro cui depositare e i fiori del loto, altro oggetto cerimoniale molto utilizzato da queste parti.

Alcune ragazze davanti ad una statua del Buddha

Il via vai è quindi incessante, ma sempre discreto e pochissimo rumoroso. I fedeli si accostano a qualche statua particolarmente venerata, si tolgono le scarpe, si accucciano e si dedicano alle loro preghiere in un modo così naturale e spontaneo da indurre chiunque, anche il più scettico, a mantenere un atteggiamento consono.

Si tratta quindi di una religiosità assai poco reclamizzata, a differenza di altri luoghi analoghi nel mondo. Non si vodono gesti scomposti, manifestazioni eclatanti di fervore religioso o altro. Qui la propria fede è vissuta come un atto personale, privato, svincolato da qualsiasi interferenza sociale. Si viene quassù per dire una preghiera, incollare una foglia d’oro, accendere l’incenso davanti a qualche santo del passato; e poi si torna giù, nel caldo umido e soffocante della civiltà, per qualche minuto messa doverosamete in pausa.

In questo luogo mistico (e posso testimoniarlo a ragion veduta, vista la formidabile dotazione di scetticismo di cui mi vanto), è impossibile non essere pervasi dalla spiritualità o – per chi ha fede – dalla presenza soffusa del divino. E’ dappertutto, sui monumenti, tra gli alberi della foresta che circonda il tempio, nel canto degli uccelli, nei volti sereni della gente. Impossibile non notarlo.

 

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