Uno degli spettacoli più seguiti e allo stesso tempo meno compresi dai turisti è senza dubbio la danza del Barong. Si tratta di una performance che a Bali viene eseguita in parecchi luoghi, più o meno sacri, a quasi esclusivo beneficio dei turisti e dei visitatori indonesiani non autoctoni. Eppure si tratta della danza sacra più importante dell’isola, uno spettacolo che affonda le sue radici culturali in tempi sicuramente precedenti alla diffusione dell’induismo. Non è solo una danza, quindi, ma un manifesto vivente delle tradizioni più antiche di Bali.
Il Barong è una specie di demone buono che, secondo le credenze semi-animistiche dei balinesi, abita le foreste e le protegge dagli spiriti e dalle streghe. Un essere che sembra un mix di vari animali: corpo di scimmia, testa di leone, coda di cavallo… Per interpretarlo occorrono due persone, una avanti e una dietro, coperte da una fitta pelliccia chiara; questi attori riproducono i movimenti del corpo e della bocca in modo molto originale. Il Barong è impegnato in una guerra eterna contro Rangda, una strega sgangherata che rappresenta il male; questa sventurata in tutte le rappresentazioni inizia scombussolando l’ordine costituito, ma poi, alla fine, viene sconfitta e trattata – a quanto ho visto – in modo esageratamente umiliante.
Una rappresentazione in vari atti
Ma in che consiste la danza del Barong? Lo spiego raccontando la mia esperienza.
Siamo stati convinti a partecipare a questo evento da Gedé, la nostra guida locale conosciuta all’aeroporto di Bali, all’arrivo, e da quel momento mai più abbandonata. Ci parlava continuamente di un grande spettacolo ma noi – forse ingannati dal suo difetto di pronuncia – non riuscivamo a capire cosa intedesse veramente. Lo avevamo assecondato intuendo che ci avrebbe portato, di prima mattina, in un luogo molto particolare per assistere ad una celebrazione sacra.
Il luogo in questione era un vero tempio indù in stile balinese: un enorme proscenio, dietro al quale si ergevano alcuni pinnacoli e stupa. Davanti ad esso sorgeva una specie di anfiteatro provvisto di parecchie file di posti a sedere. Al lato dello spiazzale era stata eretta una struttura di legno che ospitava una orchestra balinese, chiamata gamelan, con tanto di musicisti in abiti tradizionali e composta in gran parte da xilofoni e cembali locali. La musica di questa orchestra non aveva nulla a che vedere con la melodia; non era certo orecchiabile, se vogliamo, ma a lungo andare la sua struttura ripetitiva e ossessiva induceva a uno stato che potrei definire di gradevole trance.
Una volta seduti alcuni inservienti passano tra gli spettatori e consegnano un foglio, scritto anche in italiano, in cui vengoo descritti brevemente tutti i vari passi della rappresentazione. All’inizio, una donnina minuta dall’età indefinita inizia a disporre delle combinazioni di fiori e foglie, molto graziose, a semicerchio ai limiti del palcoscenico. Una operazione, accompagnata dal frastuono della musica, che passa quasi in secondo piano, ma sembra essere il viatico necessario a che lo spettacolo possa iniziare. Alla fine di esso, infatti, verrà ripetuta al contrario, ritirando le decorazioni floreali.
Il Barong entra in scena
Finiti i convenevoli, si scivola velocemente nella rappresentazione. L’orchestra comincia a martellare e i decibel salgono. E’ il momento tanto atteso: l’entrata in scena del Barong in persona. Il che avviene dall’entrata principale del tempio. Il Barong si trattiene parecchi minuti sulla soglia, ma con il passare del tempo i suoi movimenti si fanno sempre più decisi e perentori. Una volta sceso sul palcoscenico inizia una danza in cui i due attori devono dare fondo a tutta la loro abilità per evitare di inciampare o di incrociare le rispettive gambe.
Dopo qualche altro minuto di puro pavoneggiamento, il Barong viene raggiunto da vari figuranti, alcuni vestiti con costumi davvero bizzarri. Come ad esempio la scimmia, interpretato da un attore che ne replica i movimenti e le smorfie in modo quasi perfetto. O due individui, coperti da maschere tradizionali ma vestiti con abiti a scacchi piuttosto improbabili, almeno per la moda balinese. In breve il proscenio viene invaso da attori che si agitano e sgambettano da una parte all’altra della scena urlando e grugnendo in un linguaggio che non mi è sembrato reale… ma potrei sbagliarmi.
La grazia indefinibile delle ballerine balinesi
Il secondo atto è la danza di due graziosissime ballerine. Forse il modo più adeguato – e astuto – per recuperare l’attenzione dello spettatore, già duramente provato dalla prima parte dello spettacolo, ma che ancora non sa cosa lo aspetta. Le due ragazze che ho visto io erano davvero brave. Rinchiuse nei loro abiti strettissimi, attillati, da cui si liberavano solo spalle e braccia, riuscivano a eseguire movimenti in sincronia così perfetti da lasciare affascinati. Il che non è una novità, conoscendo la fama della ballerine balinesi. Le due giovani artiste, infatti, agendo solo su una percentuale irrisoria del proprio corpo, erano in grado di compiere movimenti gentili e decisi allo stesso tempo, e compivano gesti che definirei di una grazia quasi sovrumana.
La caratteristica più evidente era il modo di utilizzare il capo e gli occhi. Seguendo regole antichissime, le due ragazze oscillavano la testa da una parte all’altra e roteavano gli occhi in modo asincrono. Il che produceva vagamente quell’effetto che hanno le bambola di plastica, quando il meccanismo che regola l’apertura e la chiusura degli occhi non funziona a dovere.
Un’altra particolarità a cui invito di prestare attenzione è il modo in cui queste ballerine – specie le più brave – piegano all’indietro le dita delle mani. Un effetto amplificato dalla esagerata lunghezza delle unghie, lo so, ma comunque impressionante. Ho pensato infatti quanti esercizi, anche dolorosi, fossero necessari per ottenere questa posa innaturale.
Morte della strega e harakiri generale
L’ultimo atto della danza del Barong è quello più controverso. Qui l’attenzione del turista occidentale rischia davvero un clamoroso deragliamento. Malgrado il foglietto consegnato all’inizio, la vicenda comincia a ingarbugliarsi e a prendere una piega che non corrisponde più ad alcuna indicazione scritta. Ci si affanna a consultare quella pagina ciclostilata, sperando di individuare, tra i suoi capoversi, una frase, una parola, un semplice indizio che corrisponda a ciò che sta accadendo in scena. Ma nulla. Ad un certo punto della rappresentazione la metà degli spettatori pensa a dove poter buttare quel foglio se ne avesse l’opportunità.
Al principio irrompe in scena un signore truccato in modo stravagante che dovrebbe essere il re. Avvengono dialoghi serrati e inseguimenti, seguiti da momenti di stallo davvero incomprensibili. Poi arriva una signorina che non è una donna ma un dio indù. Questo personaggio è il classico “deus ex machina”, quello che metterà a posto tutto malgrado non sembra esistere alcuna via d’uscita. La strega di cui sopra fa la sua apparizione per reclamare il diritto all’eternità, come un dio, ma nel breve volgere di due o tre scene viene sconfitta prima dal Barong e infine deve cedere alla forza del numero. Un demone dalle fattezze di una scimmia viene addirittura evirato! Il Barong ritorna alla fine per l’ennesima danza solitaria.
A questo punto il momento più strampalato di tutta la rappresentazione. Gli individui che hanno contribuito a sconfiggere la strega occupano tutta la scena e si dispongono di fronte agli spettatori. Si piegano sulle gambe proprio come fanno gli All Blacks neozelandesi quando si preparano per l’Haka; tuttavia, invece di danzare, iniziano a accoltellarsi con lo spadone con cui avevano ucciso la strega. Sembra una cerimonia di harakiri collettivo, e ne ha proprio tutta l’apparenza, dal momento che gli attori si dimenano e urlano come ossessi. La scena, inutile dirlo, procura nei più un impeto di ilarità che, ne convengo, è piuttosto fuori luogo, dato che si tratta di uno spettacolo sacro. Ma tant’è… Di questo suicidio collettivo, peraltro, non c’è alcuna traccia sul foglietto di cui sopra…