I timidi oranghi di Semenggoh

Il Borneo è una meta di viaggio relativamente giovane. I motivi per cui viene scelta sono facilmente prevedibili e vanno dalla natura al mare passando per le tradizioni culturali autoctone. Ma la ragione principale in realtà è una sola: la possibilità di vedere gli oranghi in natura. Un privilegio che, man mano che passano gli anni, diventa sempre più raro. Perché questi buffi e pacifici primati sono una delle specie più a rischio di estinzione del pianeta.

I luoghi più celebri per osservare gli oranghi in regime di semi-libertà, almeno nella parte malesiana, si trovano ai due capi opposti dell’isola. Il primo e più antico è Sepilok, situato nello stato del Sabah, a nord, presso Sandakan. E’ anche il più conosciuto, fuori da quest’area, per via dei numerosi documentari che lo hanno raccontato nel corso degli anni. Ma c’è anche un’altra riserva molto importante, e questa si trova a sud, vicino la capitale Kuching. Si tratta di Semenggoh, un’area naturale probabilmente meno conosciuta ma forse meglio conservata rispetto a Sepilok. Abbiamo scelto quest’ultima riserva per la vicinanza a Kuching, prima tappa del nostro viaggio in Borneo.

Una delle zone del Centro di Semenggoh con le foto di tutti gli oranghi salvati e rilasciati

La Semeggoh Wildlife Centre oggi è un’area piuttosto ben attrezzata per accogliere gruppi anche molto numerosi di turisti e di appassionati di natura. Tutto ciò che interessa (e anche oltre) è possibile trovarlo sul suo sito ufficiale della Riserva (https://semenggoh.my/), e farsi un’idea di cosa è possibile fare durante una visita al centro. Su questo sito sono indicati anche i modi per poter raggiungere Semenggoh: prendere un’auto a nolo, preferibilmente con Grab, oppure ricorrere al servizio taxi. L’autobus, che una volta partiva dal mercato del pesce di Kuching, non sembra funzionare più.

Nel 2008, invece, le alternative erano ben poche. E un po’ per la fretta, un po’ per mancanza di informazioni accurate, io e Paola fummo costretti ad affidarci ad uno dei tanti taxi irregolari che stazionano nei pressi di questo mercato, peraltro molto divertente e caotico. Gli autobus di cui la Lonely Planet parlava, infatti, non erano così frequenti come ci aspettavamo e la prossima corsa sarebbe partita troppo tardi rispetto ai nostri piani.

Al contrario, con il taxista abusivo di turno, siamo partiti in anticipo. La sua proposta – evidentemente studiata apposta per quei turisti, come noi, che avevamo tempo da perdere e soldi da buttare – prevedeva una prima visita ad un centro di recupero di animali di varie specie, situata a metà strada da Semenggoh; poi l’arrivo nella Riserva giusto in tempo per assistere a qualche evoluzione dei primati e al famoso “feeding time”; quindi il ritorno a Kuching e il deposito davanti al nostro albergo. Un tour a cui non potevamo dire di no, malgrado qualche riserva sul prezzo – un tantino salato – e sull’aria vagamente feroce dell’autista.

La prima tappa era un centro di allevamento di coccodrilli e di altri animali sul cui destino, tuttavia, si addensava più di qualche nube. I grandi rettili, in particolare, sembravano la specie più a rischio di una fine prematura. Erano infatti raccolti in varie vasche, divisi per età e specie, e ammucchiati in modo da poter essere “prelevati” agevolmente al momento opportuno. Quasi tutti mostravano delle targhette numerate infilzate sulla coda. Malgrando qualche esemplare fosse lasciato libero di girare per il parco, io e mia moglie abbiamo avuto fin da subito l’impressione che si trattasse di un allevamento di animali destinati quasi esclusivamente alla conciatura.

Dopo questa spiacevole avventura, ecco che finalmente ci dirigiamo verso Semenggoh. E qui, a circa metà strada, abbiamo incontrato una bizzarra coppia di anziani turisti americani che si dirigevano, a piedi e alquanto avventatamente, verso la Riserva. E’ stato il nostro truce autista (che poi si è rivelato assai tenero e molto gentile) a chiederci se potevamo dare un passaggio ai due sventurati. Il caldo era ormai al suo apice e l’umidità si tagliava quasi con un coltello. Camminare in quell’inferno equatoriale sarebbe stato letale per chiunque, figuriamoci per due vecchietti, per quanto arzilli e volenterosi!

Ci siamo quindi fermati e li abbiamo invitati in auto. I due signori, una coppia di circa 70 anni del Maine, si sono rivelati molto simpatici e alla mano. Hanno subito incominciato a tessere le lodi dell’Italia e a parlar male di Bush (figlio), dichiarandosi orgogliosamente democratici fino al midollo. Insieme a loro abbiamo trascorso qualche minuto di allegra conversazione – per quanto la nostra comprensione dell’inglese lo consentisse, naturalmente.

L’ingresso di Semenggoh

Giunti finalmente a Semenggoh, pagato il biglietto d’ingresso, siamo entrati tutti e 5 nel centro (costo del biglietto: 10 ringitt). Dico cinque perché anche il nostro autista ha voluto varcare l’ingresso insieme a noi. Sulle prime abbiamo pensato che volesse farci compagnia fin dentro la riserva, un po’ come era successo poco prima al centro allevamento coccodrilli. Poi ci ha confessato, abbastanza candidamente, che non era mai stato a Semenggoh e sopratutto che non aveva mai visto un orango in vita sua!

E qui veniamo al punto cruciale di tutto il racconto. Malgrado non sia scontato vederne uno, gli oranghi sono dei visitatori piuttosto assidui del centro. Soprattutto quelli recentemente rimessi in libertà e i più giovani vengono spesso presso gli edifici principali della riserva per curiosare o – cosa più probabile – per scroccare qualche buon bocconcino fuori pasto. Si fanno preannunciare dal movimento delle fronde che ci sovrastano e dal rumore che producono camminando sui rami degli alberi. All’inizio non sono perfettamente individuabili tra il folto fogliame. Occorre aguzzare la vista per scorgerli. Ma con il trascorrere del tempo e l’avvicinarsi del momento del pasto si fanno sempre più vicini e numerosi.

L’effetto che hanno sui visitatori è controverso. La maggior parte apprezza la libertà di movimento dei primati e non perde occasione per avvicinarsi il più possibile. I guardiani tentano in tutti i modi di scoraggiare tale atteggiamento, visto che non tutti gli oranghi sono di indole così pacifica come sembra. I grandi maschi, in particolare, sono da tenere accuratamente sotto controllo, perché potrebbero facilmente diventare pericolosi se solo lo volessero. Altri visitatori, al contrario, mostrano subito una istintiva diffidenza per gli scimmioni e tendono a ritirarsi progressivamente verso le uscite man mano che i primati si avvicinano a terra.

Leggo oggi che parecchi turisti sono rimasti delusi da questa visita. La gran parte di essi denuncia il fatto che oranghi se ne vedono ben pochi e quei pochi da parecchio lontano. Non è ciò che è successo a me. In quel lontano giugno del 2008 riuscii ad avvistare almeno una decina di esemplari, e questo ben prima del fatidico momento dedicato al pasto. I meno timidi tra di essi erano le madri con i cuccioli piccoli. Probabilmente si erano a tal punto abituate agli umani che tendevano a ignorarne finanche l’esistenza. Penzolavano sulle nostre teste con fare noncurante, quasi svogliato, gettando di tanto in tanto uno sguardo ansioso alle piattaforme che, di lì a poco, sarebbero state riempite di cibo.

Un vecchio orango che aspetta il cibo su una piattaforma

In realtà, il “feeding time” non è solo il momento in cui gli oranghi vengono nutriti. E’ anche un pretesto per farli convergere in un unico punto e permettere ai visitatori di osservarli e fotografarli agevolmente. A Semenggoh questi momenti sono due. Il primo, quello appena descritto, si svolge poche decine di metri dall’ingresso del centro. Riguarda come già accennato, quegli esemplari che sono stati rilasciati in natura di recente, e quindi sono ancora legati agli umani che li hanno cresciuti. Qui è possibile vederne molti, in gran parte madri e figli e qualche giovane maschio solitario.

La zona predisposta al feeding time nella foresta

C’è poi un “feeding time” numero due che si svolge nell’intrico della foresta. Per assistervi bisogna percorrere un lungo sentiero serpeggiante in mezzo ad alberi dai tronchi molto sottili. Questo percorso, da solo, vale il prezzo del biglietto. Si arriva quindi in una radura in cui è stata costruita una piattaforma sopraelevata. Da qui è possibile avere una visione più ampia della foresta e dei punti in cui sono state disposte alcune pedane di rifornimento per gli oranghi.

Gli inservienti le caricano di cibo (banane, manghi, patate dolci) e spariscono rapidamente dalla circolazione. Non resta altro che attendere, ma per parecchi minuti gli unici animali che approfittano di quell’abbondanza sono numerosi e intraprendenti scoiattoli striati. Poi, improvvisamente, la foresta comincia ad animarsi. Le fronde degli alberi ondeggiano, le foglie cadono insieme a ramoscelli, i fruscii si moltiplicano in ogni dove. Ed ecco apparire gli oranghi. Sono in massima parte gli esemplari più anziani, quelli rilasciati parecchi anni fa nella foresta e ormai reinseriti con successo nell’ambiente. Insieme a loro, timidi e timorosi, giungono anche alcuni esemplari selvaggi al 100%, attirati dal cibo gratis e dalla presenza di qualche femmina.

Lo spettacolo, da questa visuale privilegiata, immersa nella foresta, è davvero emozionante. Si starebbe delle ore a guardare i primati prima mangiare, magari contendendosi svogliatamente il cibo, e poi giocare. I piccoli, in particolare, si esibiscono in ardite evoluzioni tra i rami rischiando ad ogni momento di cadere giù nel vuoto. Naturalmente questo non accade mai perché all’ultimo momento c’è sempre un piede, o la mano sicura di un adulto, a salvarli.

Fra tutti gli oranghi che abbiamo visto in quella parte della riserva, uno mi ha colpito profondamente per l’atteggiamento assunto. Era un vecchio esemplare, contraddistinto dal pelo scuro e dall’enorme borsa di pelle sotto il mento. Si è avvicinato al cibo per ultimo, in modo estremamente guardingo, un passo alla volta, senza mostrare alcuna fretta di mangiare. Una volta giunto presso un casco di banane, si è seduto dando le spalle alla nostra piattaforma e ha iniziato a nutrirsi. In pratica, non ci ha concesso il privilegio di poterlo ammirare direttamente. E lo ha fatto volutamente!

In sostanza era come se non volesse concederci la benché minima confidenza. Una richiesta inequivocabile di privacy talmente umana che non tutti i turisti presenti quel giorno, devo dire, hanno apprezzato.

 

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