L’esercito di terracotta: quando l’archeologia diventa spettacolo

Fra tutte le meraviglie dell’archeologia, il sito che custodisce l’esercito di terracotta di Xian è forse uno dei più spettacolari. Ed è una meta imprescindibile, perché rappresenta una tappa fondamentale per capire la storia della Cina e la sua cultura millenaria. Un po’ come Pompei per l’Europa o il Machu Pichu per le Americhe, tanto per chiarirci. L’esercito di terracotta è pertanto un “must” che non deve mancare dall’itinerario di un viaggio in Cina che si rispetti.

Nondimeno, riconosco che molte mete siano frutto di scelte che poco o nulla hanno a che vedere con i propri interessi personali. Sono destinazioni, cioè, che bisogna inserire nei propri programmi di viaggio quasi unicamente in base alla loro vera o presunta popolarità. Se ci vanno tutti, allora un motivo deve per forza esserci. E’ questa la convinzione di fondo. E ci si sobbarca costosi trasferimenti, faticose camminate, estenuanti contrattazioni, disagi a non finire pur di raggiungerle e ficcarle nel proprio palmares dei ricordi. Conosco persone che hanno visitato quasi tutte le meraviglie del mondo senza neppure capire perché ci fossero andate. Ho visto con i mei occhi viaggiatori che pagavano salatissimi biglietti di ingresso di siti archeologici famosi per poi trascorrere gran parte del tempo all’ombra di un tamarindo o dentro un bar con l’aria condizionata…

Questa digressione mi serve per inquadrare meglio come si è svolta la mia visita a Lintong (vicino Xian) e come l’ho vissuta personalmente. Non intendo quindi dilungarmi in spiegazioni storico-archeologiche che altri, ben più preparati, sarebbero in grado di sviluppare più efficacemente. Ciò che vorrei descrivere è la serie di emozioni che ho provato dal primo passo compiuto all’interno del complesso in poi. Premettendo che anche io, come tantissimi altri prima e dopo di me, sono andato a vedere l’esercito di Terracotta perché “bisognava farlo”…

Turisti e guide specializzate

L’edificio principale del complesso

In quell’estate afosa del 2010 siamo arrivati a Lintong con un taxi. Dopo aver superato un lungo cavalcavia ferroviario, il tassista ci ha depositati in una vasta piazza, tappezzata di negozietti per turisti e bancarelle, dove avremmo dovuto metterci in coda per acquistare il biglietto di ingresso al sito. Grazie al cielo, avevamo organizzato tutto tramite il nostro hotel di Xian e quindi eravamo già in possesso dei biglietti, allora relativamente a buon mercato.

Superato l’ingresso, costituito da un edificio in stile imperiale piuttosto anonimo, ecco che ci siamo trovati tutti su un largo vialone, costeggiato da prati ben tenuti, che conduceva agli edifici che compongono il complesso archeologico vero e proprio. Malgrado l’ampiezza di ogni struttura, la folla che sostava davanti ai vari padiglioni era notevole e rendeva difficoltoso muoversi con una certa libertà. La visita era organizzata per gruppi, meglio ancora se numerosi. Questi gruppi, abbiamo saputo dopo, si formavano direttamente in loco, acquistando un pacchetto completo che riguardava la visita anche del museo, le terme e un tempio.

Ad ogni modo, per chi non avesse organizzato proprio nulla, non c’era che l’imbarazzo della scelta. Torme di guide, di ogni età, condizione e genere, stazionavano davanti agli edifici più importanti, con il loro cartellino ufficiale su cui era indicata la lingua in cui erano specializzate. Aspettavano quei pochi sprovveduti, come noi, che erano capitati lì senza un minimo di programmazione. Tuttavia, anche volendo, non abbiamo trovato nessuno disposto ad accompagnarci. Strano a dirsi, ma nel 2010 non esisteva una sola guida che parlasse l’italiano! E la patriottica umiliazione è divenuta più cocente constatando che, al contrario, il sito pullulava di persone che parlavano perfettametne lo spagnolo!

Di conseguenza, ci siamo affidati alla nostra fidata Lonely Planet, che a parte gli strafalcioni e qualche inesattezza, è comunque una ottima risorsa a cui appigliarti quando non è hai altre a disposizione.

Un hangar impressionante

L’interno dell’hangar con l’esercito di terracotta

Una volta varcato l’ingresso, ciò che si presenta davanti è davvero sconvolgente. Un enorme spazio interamente coperto da una volta di vetro e acciaio, dalla forma vagamente somigliante a quella degli hangar per aerei. In basso, a circa 10 metri da te, si dispiega l’esercito di terracotta, disciplinatamente disposto in file ordinate e diviso da blocchi di terra ancora non scavati.

Ma ciò che lascia letteralmente a bocca aperta, e per parecchi minuti consecutivi, è la maestosità dell’ambiente. Le statue in sé, devo riconoscere, sono interessantissime e valgono tutta l’attenzione che meritano. Però è l’edificio che le custodisce e le protegge che produce in noi una sorta di sbigottimento misto a meraviglia. Io, personalmente, non avevo mai visto un ambiente chiuso così grande!

La struttura è stata pensata, tra l’altro, per permettere ai visitatori di poter godere del massimo della visuale possibile senza dover necessariamente avvicinarsi troppo alle preziose statue. Che, lo ricordo, sono in gran parte ricostruite, dato che, a quanto pare, qualsiasi esercito invasore si divertiva un mondo a spaccarle in mille pezzi ogni volta che ne aveva l’occasione. E’ quindi possibile muoversi lungo i quattro lati liberamente avendo sempre davanti la magnifica armata e potendola ammirare da più punti di vista.

Sul lato corto da cui si entra, inoltre, sono stati edificati tre enormi torrioni che si protendono per qualche metro all’interno del campo di parata dell’esercito. Da qui è possibile osservare il monumento da una prospettiva più ravvicinata, quasi a ridosso dei primi battaglioni di soldati. I lati lunghi – e sono estremamente lunghi, posso giurarlo – sono provvisti di una balconata che lascia ai turisti la libertà di poter fotografare e farsi fotografare senza doversi contendere lo spazio a suon di spintoni, insulti e pestoni. C’è posto per tutti, insomma, e nessuno ti viene a sollecitare se indugi qualche attimo in estatica contemplazione di un viso, di una foggia di capelli, di un’armatura o di una posa particolare.

L’esercito di terracotta visto da terra

La zona del complesso in cui si possono quasi toccare i soldati

Dall’altra parte dell’ingresso, dove le zone da scavare sono ancora perfettamente levigate, esiste la possibilità di scendere in mezzo ai soldati e scattare qualche indimenticabile foto ravvicinata. Due aree, mi pare, sono predisposte a tale scopo. Nella prima gli archeologi hanno predisposto una zona in cui le statue in migliori condizioni (alcune ancora con tracce di colori addosso) possono essere avvicinate dai turisti senza pericolo (per entrambi). La seconda area, invece, nel 2010 era ancora in fase di scavo. Si poteva cioè assistere, in diretta, alla resumazione e al montaggio di quei soldati che, di volta in volta, venivano tirati fuori dalla terra che li celava.

In alcuni punti si potevano scorgere ammassi informi di gambe, braccia, teste, frammenti di armatura o vesti, ancora prigionieri – in tutto o in parte – della terra color sabbia che le aveva custodite per millenni. Da questi enormi serbatoi gli archeologi ricavavano i pezzi che poi, come in enormi puzzle, venivano riassemblati e infine tornavano a prendere una forma umana.

L’accesso a queste due aree, almeno a quel tempo, era ferocemente contingentata. Si poteva entrare solo in numero limitato, non più di una decina alla volta, e sempre sotto l’occhio ansioso di guardiani dall’atteggiamento estremamente severo. Di conseguenza abbiamo dovuto aspettare molto tempo, mettendoci in fila, per avere anche noi il privilegio di poter camminare tra le statue dell’esercito di terracotta di Xian.

 

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