Le grotte di Pindaya

Le grotte di Pindaya sono l’ultima grande, estenuante prova intellettuale alla quale il turista occidentale laico deve sottostare. Meta obbligata per squisiti motivi logistici – è a metà strada tra Mandalay e il lago Inle – questo celeberrimo luogo di culto buddista rappresenta un concentrato ideale di tutte le manifestazioni della religiosità umana. Si può dire che con Pindaya si assiste alla sommatoria degli attributi che caratterizzano da secoli il buddismo birmano: grandioso, folle, bizzarro, incomprensibile, sontuoso, spaventoso e meraviglioso al tempo stesso. Vale la pena visitarle non solo e non tanto per le 8 mila e rotti statue del Buddha che ospita, quanto per riflettere una volta di più sulle misteriosi ragioni che spiegano il bisogno di religione dell’uomo.

Il santuario si raggiunge da Kalow dopo 60 chilometri circa di strada dissestata. Una deviazione in terra battuta conduce direttamente al luogo, che da lontano appare incastronato all’interno di una collina dalla ricca – e inconsueta – vegetazione boschiva. Avvicinandosi ci si accorge che le sue dimensioni sono davvero notevoli: il complesso si dispiega lungo un crinale ed è composto da più edifici, alcuni all’apparenza molto antichi altri decisamente contemporanei. Tutti collegati da una scalinata coperta da una serie di tettoie di legno, disposte a sbalzo, che da lontano sembrano dei lunghi serpenti rossi.

La salita appare piuttosto ardua, ma per chi non ce la dovesse fare si nota subito una costruzione lunga e stretta, posta proprio alla fine del percorso, che ospita un ascensore. Noi, ovviamente, abbiamo optato per la scalata, che devo dire non è stata particolarmente faticosa. I gradini, infatti, sono poco ripidi e in alcuni punti, a seconda del dislivello del terreno sottostante, la loro altezza è ridotta a pochi centrimentri. E’ insomma una camminata che si può fare tranquillamente, a patto che l’afa dia un po’ di tregua, cosa estremamente difficile a giugno, quando ci siamo stati noi.

Una delle zone più affollate della caverna

Trafelati e sudati, dopo circa mezzoretta siamo arrivati in cima e quindi all’ingresso delle caverne vere e proprie. La caratteristica delle grotte di Pindaya è la presenza al loro interno di un numero spropositato di statue del Buddha di qualsiasi dimensione, consistenza, valore e peso. L’ambiente è letteralmente intasato di statue d’oro, di marmo, di cemento, di bronzo, di semplice pietra che raffigurano il Buddha sopratutto in due delle sue posizioni classiche: in piedi e accovacciato. Queste statue sono accalcate una sull’altra, disposte in modo tale da coprire tutti gli anfratti visibili e invisibili che l’occhio può cogliere.

Ce n’è di tutti i tipi e – si capisce al volo – di tutte le tasche. Alcune statue sono decisamente preziose, coperte d’oro e di pezze sontuose; altre più modeste, di materiali decisamente più poveri e anonimi, e queste, chissà perché, sono collocate sempre in secondo piano, negli angoli più oscuri. Quasi tutti, ad ogni modo, sono disposti su una specie di supporto che consiste in uno zoccolo di pietra su cui sono incise delle parole in alfabeto birmano. Le statue del Buddha accovacciato quasi sempre si appoggiano su un altro blocco di pietra a forma di pagoda.

Una composizione piuttosto antica di immagini votive

Il modello si ripete all’infinito sempre uguale: statua, zoccolo con dedica, supporto posteriore a goccia. Ma esiste anche qualche notevole variante, come quella illustrata sopra. Una composizione di blocchi di pietra dorata disposti “a condominio”, forse perché omaggio di più famiglie… In altre aree, invece, si possono ammirare statue di notevole dimensione, sistemate in modo ordinato su ogni possibile zona piana offerta dalla caverna. Insomma, la visita alle grotte di Pindaya può riservare parecchie sorprese, basta avere la pazienza di saper cercare.

Ma chi ha portato materialmente tutte queste statue fin quassù e cosa rappresentano? Ogni Buddha presente a Pindaya è una offerta individuale da parte di un fedele o di una famiglia. Migliaia di Buddha significa migliaia di fedeli, anche di altre parti del mondo, compresa l’Italia. I ricchi non hanno difficoltà a permettersi l’ingente spesa di acquistare, abbigliare, trasportare e collocare nel posto migliore il proprio Buddha. I poveri, invece, a quanto pare fanno i salti mortali per potersi permettere una statua, possibilmente di medie dimensioni e con un minimo di copertura dorata. L’ideale sarebbe di poterla collocare non troppo distante dall’ingresso o comunque, se destinata in fondo alle caverne, non troppo in alto e fuori portata.

La nostra guida Sonny in una delle cavenre più interne di Pindaya

Una volta sistemata la propria statua nel posto più visibile e/o raggiungibile, essa si trasforma in un luogo di pellegrinaggio che coinvolge tutta la vita. Almeno una volta all’anno, infatti, i fedeli sono tenuti a farvi visita e venerarlo. Lo stesso Sonny, la nostra guida, ne possiede una in una caverna più interna. Nondimeno, non c’è mai un flusso esagerato di pellegrini. Alcune cavità, come si nota nella foto, sono pressoché deserte. Ciò induce a farsi qualche domanda. Forse per molti è sufficiente sistemare la propria statua e lasciarcela, senza poi compiere alcun pellegrinaggio; forse nel calendario buddista birmano esiste un giorno o una settimana particolare dedicata a questo compito; o forse, probabilmente, non tutti i birmani sono in grado di poter permettersi una statua d’oro a Pindaya. Fatto sta che ho visto più turisti che pellegrini.

Davanti al massiccio stupa posto davanti all’ingresso abbiamo assistito ad una scena piuttosto inquetante. Due signore, accovacciate presso il basamento, si rivolgevano ad un personaggio piuttosto stravagante che, inginocchiato anch’esso, pronunciava formule e borbottii incomprensibili anche agli addetti ai lavori, a giudicare dalle loro facce. Questo tipo, i cui tratti, acconciatura e trucco lo identificavano abbastanza chiaramente per un uomo travestito da donna, agitava continuamente le mani giunte davanti a sé tenendo gli occhi chiusi, dondolando avanti e indietro e – particolare non meno orripilante – schiumando bava dalla bocca. Era in pieno raptus ma nessuno dei presenti – eccettuate le due donne – gli degnava alcuna attenzione.

Ciò mi ha solleticato l’ultima riflessione. Affidarsi a dei sedicenti posseduti che improvvisano sceneggiate da tarantolati, a quanto pare, non è una esclusiva di una sola religione. Evidentemente l’effetto provocato da queste manifestazioni isteriche e scomposte è considerato – e non so proprio darne una ragione – una espressione diretta di ispirazione divina.

 

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