L’arte dell’inchino: rito, convenzione o tic nervoso?

Chiunque sia stato in Giappone non può aver fatto a meno di notare – e di apprezzare – l’estrema cordialità dei suoi abitanti. Si tratta di una forma di gentilezza molto particolare, per certi versi estrema, ritualizzata, legata a situazioni dettagliatamente preordinate, che spesso scade nella più rigida convenzione.

Non sto dicendo che i giapponesi siano cortesi solo per rito e convenzione, assolutamente no. La loro cortesia è genuina, sempre discreta, mai soffocante, e i sorrisi si sprecano in qualsiasi circostanza, anche quando si è arrivati alle soglie del litigio. Dico semplicemente che anche la gentilezza ha un ruolo ben definito all’interno della complessa ragnatela di regole che condizionano la vita di tutti i giorni, nel bene e nel male.

L’inchino, tra tutti i gesti di cortesia ritualizzati, è quello che salta più all’occhio, soprattutto degli occidentali. Molti dei quali – tra i quali io stesso – lo considerano un retaggio di un mondo medievale, dominato non dal rispetto ma dalla paura e dalla sopraffazione.

Quando si guarda un film giapponese ambientato nel passato, anche recente, ci si accorge subito di una situazione curiosa: i personaggi di alto rango, quando stanno di fronte a persone di classi inferiori, si ergono eretti, fieri, dritti come fusi; gli altri, invece, a seconda del rango, assumono un atteggiamento remissivo, dimesso, accentuato fisicamente dall’inchino, che si trasforma da movimento oscillante in avanti a vera e propria posizione fissa, la cui angolazione è direttamente proporzionale alla distanza nella scala sociale.

Malgrado la società giapponese, oggi, sia una delle più autenticamente democratiche al mondo, credo che alcune manifestazioni sul modo di relazionarsi con gli altri siano un retaggio di quel passato. E ciò è ancora riscontrabile nell’ampia gamma di inchini che si osservano per le strade, nei locali pubblici, sui treni, insomma dappertutto.

Esiste in effetti un codice preciso che determina il tipo di inchino e in quali circostanze usarlo. Dalle guide informate in proposito, sembra che siano almeno tre: uno che prevede una inclinazione in avanti di appena 10 gradi, riservato ai saluti formali e poco altro (è l’inchino che i controllori di treno fanno al vagone prima di uscirne fuori); uno da 30 gradi, usato per saluti più ossequiosi o per dimostrazioni (moderate) di gratitudine (dopo un acquisto); uno da 45 gradi, per manifestazioni di rispetto e per porgere le proprie scuse.

Io ho assistito a due casi limite. Uno a Tokyo, presso un caffè di un centro commerciale. Un cliente grasso e sudaticcio si è alzato dal tavolo dopo aver pagato e la commessa si è prostrata in avanti di almeno 100 gradi, urlando come al solito il proprio ringraziamento in modo che potessero sentirlo anche quelli del centro commerciale adiacente. In un’altra occasione, a Osaka, due vecchietti abbigliati in una goffa uniforme simil-poliziotto, stavano fermi di fronte all’uscita di una agenzia di scommesse sportive. Ogni volta che ne usciva una persona, si prostravano in coppia, in perfetta sintonia, di almeno 90 gradi, per quanto potesse conceder loro l’artrite, e anche qui il ringraziamento rituale era urlato a squarciagola. Sembravano due tuffatori sincronizzati, per quanto erano precisi sia nell’operazione di inclinazione in avanti, a scatto, sia nel ritornare su, più lentamente.

Da tutte queste esperienze ne ho tratto una riflessione: l’inchino, specie quello più profondo, non si fa solo nei confronti di chi ne è beneficiato, ma è un gesto dal significato più generale, collettivo. E’ diretto a tutti coloro che assistono alla scena, serve a dire: io rispetto le regole, vedete?, faccio tutto in maniera inappuntabile, corretta, nessuno può lamentarsi di me.

C’è infine un abbozzo di inchino, che i giapponesi fanno semplicemente quando parlano tra di loro. E’ un movimento oscillatorio curiosissimo realizzato come se la testa cadesse in avanti, come per un colpo di sonno. Questo gesto da quanto ho capito può significare “sono d’accordo”, “va bene”, “è giusto” e diventa molto interessante da osservare quando i due dialoganti parlano concitatamente, anche sovrapponendo le voci. L’aspetto comico, poi, è quando smettono di chiacchierare, stanno un attimo in silenzio riflettendo su quanto detto, e all’improvviso uno dei due si esibisce in un mezzo inchino a scatto, senza nessun preavviso, magari sfoderando un sorrisetto di circostanza. Non è un tic nervoso, però è davvero curioso e invito tutti coloro che andranno in Giappone a notarlo.

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