Un matsuri fuori programma a Tokyo

I Matsuri sono feste a carattere religioso giapponesi. Hanno origine dai santuari shintoisti disseminati in ogni città: ogni santuario, infatti, celebra il proprio matsuri in un momento ben preciso dell’anno. Ciò significa che vi sono periodi in cui i matsuri, a seconda del numero di santuari presenti e della collocazione stagionale più propizia, possono essere davvero numerosi. E’ quindi più facile per i turisti incrociarne qualcuno per le strade di una grande o piccola città giapponese.

Ma in che consiste, in definitiva, un matsuri? Lo spiego meglio raccontando la mia esperienza personale. Mi trovavo a Tokyo, ultimo giorno di viaggio, all’inizio di settembre del 2014. Fino a quel momento non avevo mai assisitito ad alcuna festa pseudo-religiosa in nessuna parte del paese. Non immaginavo neppure che i giapponesi, così sobri e controllati per natura, potessero indulgere a manifestazioni di religiosità così marcate. Ovviamente, non sapevo neppure cosa fosse un matsuri.

Quel giorno di settembre, quindi, mi trovavo a passeggiare per le vie di Asakusa, aspettando pigramente di giungere all’ora di cena e concludere degnamente l’ultimo giorno di viaggio. Avevo appena assistito ad un festival piuttosto stravagante, l’Akasusa Samba Festival, come già raccontato in questo post, e mi ritenevo giustamente appagato per ciò che la giornata mi aveva offerto. Non mi aspettavo più sorprese, insomma, eppure Tokyo aveva in serbo l’ultimo colpo di scena finale.

Una divinità shinto portata in processione nel centro di Tokyo
Una divinità shinto portata in processione nel centro di Tokyo

Giunti presso un crocevia ci ha colto un rombo insistente di tamburi. Non erano le percussioni udite prima, relative al Festival brasiliano; qui si trattava di ritmi e sonorità diverse, più cupe, più selvagge se vogliamo. Incuriositi, ci siamo diretti verso l’origine del frastuono e improvvisamente ci siamo trovati nel bel mezzo di una processione religiosa. Una fiumana di gente abbigliata in maniera multiforme camminava per la strada precedendo un gruppo di persone che sorreggevano una lunga e stretta piattaforma. A dire il vero sembrava più una zattera a 3 o 4 assi paralleli di bambù, sorretto da un numero imprecisato di portatori, su cui troneggiava una specie di altare decorato da drappi di stoffa e mazzi di fiori.

In breve ho realizzato che il gruppo che mi passava davanti in quel momento era solo uno dei tanti che componevano la processione. L’ho intuito dalle casacche indossate dai partecipanti. I primi erano abbigliati in completi blu scuro, i secondi avevano dei mezzi kimono verdi, i terzi, in lontananza, mostravano colori più grigiastri. Si trattava quindi di una sfilata in cui ciascuna “confraternita” – se vogliamo utilizzare questa definizione – sfoggiava i propri colori e scortava il proprio altare shinto. Il tutto immerso in un frastuono di urla, tamburi, melodie ipnotiche di flauti e cembali. E, proprio come avviene in manifestazioni come il nostro Palio di Siena, gli appartenenti a ciascun santuario accompagnavano l’altare disponendosi su due file parallele intorno ad esso.

Le analogie con le nostre processioni religiose o di contrada non si fermano qui. I fedeli mostravano tutti qualche segno di appartenenza al proprio santuario shinto di origine: una bandana, un pezzo di stoffa colorato, un fazzoletto legato al collo, una bandierina, un cappellino… Ogni tanto si udivano delle frasi urlate ad alta voce, in genere nei pressi dell’altare. Non ho ben capito se fossero degli slogan tipici di ciascuna confraternita o comandi impartiti ai portatori per sincronizzare meglio i loro movimenti. Protendo per quest’ultima versione, dal momento che ogni portantina (mikoshi) procedeva in un modo che ho trovato subito molto curioso.

In pratica, i portatori camminano ondeggiando su e giù continuamente. In tal modo il mikoshi sembra quasi ballare sopra la massa di teste che lo circonda. Ogni portantina procede allo stesso modo; quindi lo spettacolo a cui si assiste è particolarmente affascinante e allo stesso tempo un tantino tribale. I portatori (tra cui ho notato anche parecchie ragazze) si avvicendano in continuazione sotto i due pali di bambù. La ragione più ovvia è anche la più semplice: malgrado ogni baldacchino non appaia eccessivamente pesante, doverlo però issare sulle spalle e al contempo farlo ondulare continuamente, molleggiandosi sulle ginocchia, sembra un compito assai faticoso.

Ma c’è anche un altro motivo, ben più sfuggente. Appare evidente che gli individui preposti al trasporto si contendano le posizioni migliori e che nessuna fatica o disagio possa dissuaderli dal recedere di un millimetro. Ogni portatore è affiancato da tre o quattro individui che non aspettano altro che il momento propizio per dargli il cambio. Ciò causa una perenne confusione, un assembramento caotico, un rimescolamento continuo di uomini e donne sotto e accanto all’altare. Per chi non ce la fa più – ogni tanto qualcuno perde i sensi e si accascia al suolo esausto – ecco che viene immediatamente rimpiazzato dall’individuo “disoccupato” più vicino. Qualsiasi cosa accada, insomma, non ha alcun effetto sull’andamento della processione.

Ogni portantina, infine, è preceduta da una specie di capo-processione. Si tratta di un tipo che marcia in testa al gruppo e dà il ritmo di marcia, in genere con un fischietto. Il suo compito è quello di non lasciare che la zattera vada troppo veloce, finendo per addossarsi troppo al gruppo che la precede. Per questo, di tanto in tanto, si para dinnanzi ad essa e ne rallenta l’andatura. Una azione che sembra molto faticosa, devo dire, perché a volte ci vuole tutta la sua forza per frenare l’irruenza cieca e fanatica dei portatori.

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