Visita ad una longhouse del Sarawak

Le longhouse, o “casa lunga,” è una costruzione tradizionale abitata dai gruppi indigeni del Borneo, come i Dayak e gli Iban. Queste case sono note per la loro lunghezza e per il loro design unico, che riflette la vita comunitaria delle tribù che vi abitano. In pratica sono l’esatto equivalente dei nostri condomini; con la differenza che, invece di dispiegarsi in altezza, queste costruzioni si estendono in lunghezza.

Le longhouse sono solitamente costruite su palafitte, con legno e bambù come materiali principali. Sopra la piattaforma principale abitano gli umani; sotto, le bestie domestiche, in genere maiali e galline. I tetti sono spesso realizzati con foglie di palma intrecciate, disposte in più strati, in modo da non lasciar passare la pioggia. Molte longhouse del Sarawak, specie quelle più distanti dai circuiti turistici, presentano coperture in laminato di varia grandezza e spessore, quasi sempre arruginite.

Le Longhouse possono essere estremamente lunghe, perché solitamente ospitano decine di nuclei familiari. Ogni famiglia ha la sua sezione separata, ma tutte le sezioni sono collegate attraverso un lungo corridoio centrale. Questo spazio condiviso rappresenta quindi la “piazza” della comunità, il centro sociale dove si svolgono cerimonie, feste e riunioni, favorendo un forte senso di comunità e cooperazione tra i membri. Molte cerimonie tradizionali, come i festival di raccolta, i riti di passaggio e le celebrazioni religiose, si svolgono infatti qui.

Con l’avanzare della modernizzazione e l’influenza della cultura urbana, molte popolazioni hanno iniziato a lasciare le longhouse per vivere in abitazioni più moderne. Tuttavia, alcune comunità continuano a mantenere questa tradizione viva, sia per motivi culturali che per attrarre il turismo, permettendo ai visitatori di sperimentare e comprenderne la vita quotidiana. Anche Paola e io, accompagnati dal fedele Mr. Chang, ci siamo recati in visita ad una di queste abitazioni tipiche dell’etnia Iban.

Sarà stato l’orario, oppure il caldo soffocante, ma non abbiamo trovato molta animazione. All’esterno, sotto la piattaforma, maiali e bufali poltrivano in larghe pozze di fango profonde anche mezzo metro. Galline spennacchiate e cani selvatici erravano tra i pali. All’interno, il grande corridoio, per accedere al quale bisognava togliersi le scarpe, era perssoché deserto. Lontano si intravedeva una amaca dalla quale penzolava una gamba. Ancora più distante un paio di donnine spazzavano l’ingresso della loro abitazione con una scopa senza manico. Il nostro anfitrione ha parlottato con un vecchietto per concordare una visita all’interno di una casa, ma non ha ottenuto la risposta desiderata. I pochi presenti, compresi i bambini, ci dedicavano una attenzione un po’ diffidente, quasi ostile, così diversa da quella che ci aspettavamo.

Mr. Chang non si è perso d’animo. Siamo saliti sul suo taxi e ci siamo recati presso un’altra longhouse, poco distante, che subito ci è sembrata meno genuina e più turistica della precedente. Era totalmente costruita in legno e disponeva addirittura di piccoli giardini, vasi di fiori, angoli con giochi per bambini. Non c’era traccia di animali ma, al contrario, in un parcheggio poco distante si notavano alcune motociclette giapponesi e un paio di Suv.

L’accoglienza è stata sicuramente migliore, anche se un po’ formale. Che gli abitanto di quella longhouse fossero “preparati” all’invadenza turistica era evidente da molti segnali: alcune donne erano vestite con abiti tradizionali; il corridoio comune era decorato con piante rampicanti e fiori; le abitazioni erano tutte aperte e le proprietarie ci invitavano a entrare con gesti piuttosto sbrigativi. Una volta scelta l’abitazione da visitare, tutte le altre venivano chiuse e i rispettivi proprietari – che poco prima affollavano il corridoio – sparivano dalla circolazione.

L’interno era costituito da una grande stanza disseminata di stuoie vegetali colorate, da un angolo cucina, con il focolare al centro, da un ambiente dormitorio separato da pannelli di legno. Non vi era traccia – almeno apparentemente – di bagni o comunque di servizi igienici. In compenso, in una parete antistante l’ingresso troneggiava un nuovissimo televisore a schermo piatto. Ci hanno offerto un tè e ci hanno invitati ad assistere ad alcune pratiche quotidiane, come tessere da un telaio rudimentale e cucinare qualcosa in un brodo dal colore indefinibile. Era evidente che si trattava della solita messinscena realizzata ad uso e consumo turistico. Non ci siamo sorpresi, quindi, se alla fine della visita abbiamo ricevuto la richiesta di lasciare un obolo, come contributo alla conservazione degli usi e costumi tradizionali del Sarawak.

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