Ci sono monumenti che entrano nel mito per ragioni che nulla hanno a che fare con le caratteristiche, l’aspetto, la storia, la bellezza per cui sono famose. Sono opere dell’uomo, o della natura, che possiedono qualcosa che colpisce inevitabilmente l’immaginario delle persone che le visitano. Un esempio classico è la Torre di Pisa. La gente la fotografa perché pende, non per le sue meravigliose caratteristiche artistiche.
Anche in Myanmar c’è un monumento che attira visite e devozione per un elemento che potrebbe essere definito bizzarro. E’ la famosa Roccia d’Oro, uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio del paese. Sorge nei pressi di una cittadina anonima, Kyaiktiyo (spero di averlo scritto bene), in cima a una collina piuttosto elevata, raggingibile percorrendo una lunga strada lastricata e tormentata, fiancheggiata da misere abitazioni, negozi di cianfrusaglie, ristorantini e tutto il repertorio del commercio al minuto che si può trovare in Asia.
Un masso in bilico sul vuoto
La Roccia d’Oro in realtà non è altro che un masso di granito la cui precaria posizione ha alimentato leggende e supersizione popolare a non finire. Si dice infatti che stia in bilico su una ciocca di capelli del Budda. La sua colorazione dipende dallo spesso strato di lamine d’oro con cui i fedeli l’hanno coperta nel corso dei secoli. In cima a questo masso, è stata piazzata la caratteristica pagoda a stupa, una costruzione di sette metri che dona una certa grazia al colpo d’occhio generale.
La caratteristica più inquetante, specie per un non credente, è come diavolo questa roccia riesca a restare in quella posizione. La superfice di contatto tra essa e la massa sottostante, infatti, è davvero molto ridotta; inoltre, il masso sporge di oltre la metà della propria circonferenza sul burrone sottostante, e posso garantire che si tratta di una vista davvero affascinante, come penso testimoni la foto che ho scattato io stesso. Si tratta pertanto di un luogo da non perdere assolutamente.
Come arrivare alla Roccia d’Oro
Tutto questo però ha un prezzo. Il tragitto per raggiungere questo luogo fatato è quanto di più arduo si possa immaginare. Si comincia infatti da una lunga attesa in un enorme posteggio di camion posto alla base della collina. Qui i turisti vengono ammucchiati, separati per gruppi e caricati su fatiscenti camion che fanno continuamente la spola con l’ingresso dell’area sacra, posta qualche chilometro più in alto. Sempre che si arrivi per tempo, beninteso, perché dopo un certo orario i camion non partono più e bisogna rimandare al giorno dopo.
Pur essendo arrivati per tempo, noi abbiamo dovuto aspettare parecchio per prendere il camion giusto. Il via vai era continuo, oserei dire frenetico, ma sembrava che non fosse mai il nostro turno. Poi, finalmente – e grazie all’intervento del nostro prezioso Sonny, che ci accompagnava – abbiamo abbordato un camionista suo amico che ci ha riservato i due posti in cabina accanto a lui. Una fortuna di cui sul momento non ci siamo pienamente resi conto.
Il tragitto in camion percorre una via che si apre la strada in mezzo alla foresta e giunge in una vasta zona piena di monaci in cerca di elemosine. Da lì, ovvero dall’ingresso ufficiale all’area della Pagoda della Roccia d’Oro, l’unico mezzo permesso sono i propri piedi. Ma niente paura: per chi non ce la fa, dei robusti portatori si caricano i turisti su improvvisate lettighe e li trasportano lungo i numerosi tornanti che portano al complesso sacro vero e proprio, collocato un chilometro e mezzo più in alto.
Una salita pericolosa
Questo chilometro e mezzo è il vero atto di fede che sono chiamati a fare tutti, credenti o agnostici che siano. E se piove diventa una via crucis senza la croce. La salita infatti si presenta ripidissima e sdrucciolevole. Le torme di pellegrini locali che la percorrono mostrano una agilità esagerata, che muove a sentimenti di rabbia e/o invidia. Noi poveri occidentali, con i nostri sandali ultra tecnici, saliamo invece come degli zombi, rischiamo sempre di mettere il piede in fallo e di scivolare sulla patina di fanghiglia che copre il terreno.
Devo dire che io e mia moglie abbiamo preso piuttosto alla leggera l’impresa. Pensavamo che le tante ore passate in palestra o a giocare a calcetto ci mettessero al riparo da qualsiasi crollo fisico. Ci ingannavamo. Dopo un centinaio di metri, con la pioggia che aumentava di intensità ad ogni passo, la camminata si è trasformata in uno psicodramma, tantevvero che Paola si tratteneva a stento dall’inveire contro il mondo intero per non aver preso una lettiga al volo quando ne aveva avuto il modo. Cosa che invece avevamo fatto una coppia di giapponesi, peraltro più giovani di noi, in un certo punto del tragitto.
Ultimo tratto, il più duro
In cima, a pochi passi dai templi, il disagio è diventato sofferenza fisica perché la strada è scomparsa in mezzo ad una fitta nebbia. A parte non vederci granché, l’umido ci penetrava nelle ossa come se ci trovassimo in val Padana in autunno. Infine, ultima prova, la più dolorosa: arrivati nei pressi dell’area sacra è obbligatorio togliersi scarpe e calzini. La visita alla Roccia d’Oro e a tutti gli altri templi che la circondano bisogna compierla tassativamente a piedi nudi. Su una pavimentazione viscida e fredda, per dare l’idea.
Insomma, come tutte le cose belle, anche questa scalata alla Roccia d’Oro è qualcosa che bisogna guadagnarsi con sudore e fatica. E ben venga anche la pioggia, le piaghe ai piedi, il freddo cane della sera, se poi la ricompensa è una fotografia come questa.