Sono sempre stato attratto dai templi rupestri. Trovo che siano i luoghi più idonei ad alimentare la devozione, semmai ce ne fosse bisogno. Il buio, l’armosfera rarefatta, l’odore diffuso e vagamente ipnotico dell’incenso… ogni cosa sembra creata apposta per rievocare l’idea del divino. Per me, ateo convinto e scettico per passione, infilarmi in una caverna oscura per osservare gli improbabili luoghi in cui una religione nutre i propri miti, è una gioia quasi mistica. E’ in sostanza una esperienza che mi avvince, qualche volta persino mi rapisce. Niente al mondo m’impedirebbe di visitare una caverna sacra, anche se collocata chissà dove su una montagna o quasi irrangiungibile perché sprofondata nei precordi della terra.
Niente, meno che la burocrazia. ovviamente. L’unica forza al mondo capace di sovvertire qualsiasi logica. Sorda, bruta, incoerente, capace di seguire solo i suoi rigidi schemi, la burocrazia può trasformare un semplice atto in una impresa titanica. Quando poi non riesce addirittura ad impedirlo. Come è successo a me durante la visita a Dambulla, uno dei complessi rupestri più famosi di Sri Lanka.
Il luogo, a prima vista, non sembra soddisfare le aspettative a causa delle quali ti sei spinto fin laggiù. Il primo colpo d’occhio, a dire il vero, non è molto entusiasmante. Come si vede in foto, l’area è dominata da un enorme Buddha dorato, di recente realizzazione, che sovrasta un edificio, per metà inglobato nella roccia. L’entrata di questo edificio è caratterizzato da una buffa immagine con occhi e denti che sembra ingoiare chiunque si introduca al suo interno. Sotto, uno spiazzale assolato è invaso da turisti e pellegrini, intenti i primi a capire come raggiungere i famosi templi rupestri, i secondi ad acquistare fiori e offerte di cibo per il grande Buddha dorato.
Questo spiazzo fa parte dell’area sacra del tempio, quindi è obbligatorio togliersi le scarpe. Il che rappresenta il primo grande sacrificio da compiere per chi si appresti a raggiungere la sommità dell’edificio. Da qui in poi, infatti, il terreno rovente sarà il vero banco di prova della tua devozione o – in alternativa – della tua cocciutagine di turista. Nondimeno, saltando da una zona ombrosa all’altra si ragginge una delle due scalinate che avvolgono il blocco centrale e portano su, verso le graziose torrette bianche.
In mancanza di informazioni più dettagliate (e senza l’ausilio della guida, lasciata colpevolmente in albergo), ci siamo affidati alla presunta esperienza del nostro autista Antonio per capirci qualcosa. Ma non siamo riusciti ad ottenere che ben poche istruzioni. Tutto ciò che si è limitato a dire è stato: “andate sù, è bello. Io vi aspetto qui”. Frase interpretata giustamente con la ferma intenzione di non affrontare neppure uno scalino sotto quel sole implacabile, specie nella sua condizione di semi-obesità… Altro non ci ha detto. Quindi ci siamo tolti le scarpe e abbiamo affrontato l’ascesa.
Il primo aspetto da sottolineare è che la scalinata non è per niente faticosa. Se non fosse per il fatto di essere composta da lastre di marmo perfettamente liscie, e quindi più infuocata di un braciere ardente, sarebbe perfino gradevole. Questo passaggio, invaso a volte dalla chioma di alberi di bouganville, conduce ad una terrazza con un grande blocco di marmo verde posto al centro, vicino alla parete. Qui i fedeli pongono le loro offerte – frutta e composizioni floreali – e si trattengono davanti ad esso per i riti e le preghiere. Non fanno caso nè ai turisti, che sciamano in ogni direzione nel tentativo di restare il più possibile con i piedi nudi all’ombra; né quantomeno alle scimmie, le vere dominatrici incontrastate del luogo.
I macachi di Dambulla, in effetti, sono una specie di scimmie particolarmente opportuniste. Conducono ufficialmente la loro esistenza nei dintorni del tempio, nelle vaste e oscure foreste che lo avvolgono da tre lati. In realtà passano il loro tempo prevalentemente su questa terrazza, incuranti di tutti i bipedi che li circondano e delle loro incomprensibili faccende. L’unica cosa che importa a questi primati è ciò che viene abbandonato (secondo il loro punto di vista, naturalmente) su quella lunga e comoda lastra di marmo verde posta all’ombra della grande statua di Buddha.
Ogni offerta, qualsiasi sia la sua composizione, sparisce infatti in un attimo. Le scimmie si appropriano di ogni forma di cibo appena pochi secondi dopo che è stato depositato. Per compiere tali furti con maggiore probabilità di assicurarsi il malloppo, si dispongono in gruppetti familiari, dividendosi virtualmente la superficie della lastra in zone distinte ed equivalenti. In questo modo i conflitti tipici di questa specie sono ridotti al minimo. Ciò che resta, dopo il loro passaggio, è una massa informe di petali, gambi sminuzzati, semi, frutta semi-mangiata. Ma nessun pellegrino sembra impensierirsi per tale comportamento. Ogni cosa è vista – e sopportata – con pazienza e un tantino di divertimento.
Le scimmie vanno bene, sono buffe e si tirano dietro un gran numero di scatti fotografici. Ma alla lunga la situazione stanca. Il calore del terreno impedisce di muoversi liberamente per non più di tre-quattro passi consecutivi. E’ una autentica tortura che spinge i turisti, prima o poi, ad abbandonare la terrazza. La destinazione più ovvia dovrebbe essere la lunga scalata ai templi rupestri, che sorgono sopra il tempio, all’interno dell’immenso blocco di roccia nera che si intravede tra le chiome degli alberi. E infatti è questa la seconda tappa della visita a Dambulla.
Questa era esattamente la mia idea. Quindi sono tornato indietro e mi sono rivolto ad Antonio sperando mi indicasse l’ingresso alle grotte. Invece lui mi indica l’uscita: è tardi, dice, bisogna rimetterci in marcia. Io rimango un attimo pensieroso, poi ritorno alla carica: dove sono le famose grotte di Dambulla? Lui fa orecchi da mercante, dice perfino che non ci sono caverne lì. Io gli faccio vedere le immagini da Google e finalmente ci troviamo connessi sulla stessa lunghezza d’onda. Con un sorriso disarmante Antonio mi dice: “Oggi sono chiusi. Per restauri”.
Inutile dire che non gli ho creduto. Secondo me aveva solo una fretta dannata di arrivare a Sigirya, la meta finale di giornata, visto che eravamo oggettivamente in ritardo sulla tabella di marcia. L’ho costretto ad accompagnarmi su, verso l’ingresso intravisto prima, per aiutarmi come interprete. Non potevo credere che un monumento talmente importante fosse chiuso per un motivo così banale. Già mi figuravo il momento in cui l’avrei smascherato, messo con le spalle al muro, costretto ad ammettere che si era inventato tutto per non perdere altro tempo…
Invece aveva ragione lui. In Sri Lanka vige una particolare regola che riguarda tutti i monumenti a carattere religioso. Ogni tot anni devono essere ridipinti. Allo scopo vengono ingaggiati valenti restauratori che ripassano di colore ogni statua, rilievo, suppellettile, soppalco, struttura che hanno sotto mano. Non importa se così facendo compromettono l’originalità di oggetti che, a rigor di logica, dovrebbero essere lasciati al loro stato originario. Al contrario, ogni cosa che abbia un riferimento religioso, non importa quanto sia antico, deve essere ringiovanito continuamente. Forse è un modo di riportarlo a nuova vita, rinnovando in tal modo la devozione dei fedeli nei suoi confronti.
I templi rupestri di Dambulla vengono rinnovati con calce nuova e colori brillanti ogni 5 anni. Io sono capitato proprio nell’unico mese degli ultimi 5 anni in cui questa operazione era prevista. Morale della favola? Chi volesse visitare le celebri grotte di Dambulla evitando ciò che è capitato a me, si faccia due conti. Io sono stato laggiù ad agosto del 2018. Uomo avvisato…