Il museo della pace a Hiroshima, la lezione della storia

C’è un posto sulla terra in cui la storia non è un concetto astratto relegato in un libro o impersonato da qualche rudere isolato. A Hiroshima la storia è la protagonista assoluta della città ed è la padrona inconstrastata del luogo forse più venerato e rispettato della città, il Museo della Pace. Questo è il tempio in cui viene celebrato un culto molto particolare: il ricordo dell’olocausto nucleare attraverso i cimeli sopravvissuti alla tragedia.

La memoria che i giapponesi hanno di quell’esplosione, oggi, è difficilmente comprensibile da noi occidentali. Vediamo i resti del municipio e pensiamo subito alle responsabilità di chi ha scatenato quell’episodio drammatico. Le colpe vengono istintivamente assegnate, di volta in volta, ai giapponesi – che provocarono quella guerra – e agli americani – che decisero di sganciare le bombe atomiche. Ma non è così che oggi i giapponesi vedono la storia. Perché la storia non attribuisce colpe e penalità. La storia è come il flusso di un fiume: oggi ci fai il bagno, domani ti distrugge la casa. Non è cattivo o buono, è sempre lo stesso fiume.

Una riproduzione della bomba che distrusse Hiroshima

La bomba del 6 agosto 1945 oggi è solo un mero fatto storico. Della tragedia nazionale di proporzioni esagerate che mise in ginocchio il paese e sconvolse il resto del mondo non è rimasto quasi nulla. Si è trattato di un episodio che, sopratutto per le nuove generazioni, non importa se giapponesi o no, deve valere unicamente per quello che conta: una sonora, asettica, impersonale lezione da parte della storia.

E’ giusto questa la consapevolezza che deve accompagnare una visita al Museo della Pace di Hiroshima. Si entra e subito un grande plastico ti mostra, abbastanza crudemente, dove esplose la bomba e qual è stato il suo mortale raggio di azione. I pochi edifici che si individuano sono esattamente quelli che sono rimasti più o meno in piedi. Il resto è la riproduzione di quanto emerso 30 secondi dopo l’esplosione: una landa desolata in cui della città erano rimaste solo le tracce delle mura.

Questo primo impatto condizione molto, devo dire, il resto della visita. La presa di coscienza che una singola esplosione possa causare un tale disastro, spazzando via ogni edificio – e i suoi abitanti – come se fosse polvere, causa un leggero malessere che ti accompagna e cresce ad ogni passo. Le vetrine disposte intorno al plastico accentuano tale sentimento. Sono piene di reperti di ogni tipo, conservati per testimoniare che una volta fossero oggetti comuni, usati anche da noi, e che appartenessero a delle persone reali, non a personaggi di libri o film. Sono stoviglie, pentole, cinture, cucchiai, macchine da scrivere, contenitori vari, occhiali… Oggetti appartenuti a differenti classi sociali: ricchi, poveri, impiegati, commercianti, contadini, tutti orribilmente contorti dal calore generato dall’esplosione, a volte fusi uno sull’altro.

L’area che desta il massimo disturbo emotivo è quello dei reperti appartenuti ai bambini. Vestitini, scarpette, giocattoli, utensili… ce n’è da far crepare il cuore. E le fotografie, disposte sapientmente un po’ dappertutto, come a ricordare che di persone reali stiamo parlando, non di cose senza anima, completano il quadro tragico in cui progressivamente ci immergiamo durante la visita.

L’altro aspetto che invito a tenere d’occhio è l’atteggiamento dei visitatori. Che sono ovviamente turisti stranieri ma anche molti giapponesi. Fra quest’ultimi segnalo la presenza piuttosto nutrita di scolaresche provenienti da ogni parte del Giappone. I bambini di ogni età scolare invadono gli ambienti con una compostezza da far accapponare la pelle. Non sembrano tristi o addolorati. Sono bambini, quindi ogni tanto scherzano tra di loro e sorridono. Ma ciò che ne caratterizza maggiormente l’atteggiamento è l’estremo interesse, apparentemente privo di emotività, che accompagna le spiegazioni dei loro insegnanti.

Gli stranieri, invece, si comportano come se fossero appena entrati in una chiesa. Parlano piano, evitano di produrre rumori, limitano persino l’uso dei cellulari o delle macchine fotografiche, quasi per timore di mancare di rispetto a un luogo di culto. Fra tutti, gli americani sembrano i più affranti. Credo che per loro, una volta arrivati a Hiroshima, diventi più difficile sostenere l’interpretazione della storia che ha dominato le nostre convizioni fino ai giorni d’oggi. Ma questo è tutto sommato il bello della storia.

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