Vang Vieng e il mito del buon selvaggio (rivisitato)

Sono pochi i luoghi al mondo in cui un mito riesce a resistere agli affronti del tempo, del progresso, della globalizzazione. Uno di questi è Vang Vieng, località piuttosto trendy del Laos che negli ultimi decenni ha visto accrescere la sua fama turistica. Qui è possibile rivisitare in qualche modo il mito del buon selvaggio di Jean-Jaques Rousseau: un luogo fuori dal tempo, al margine dei percorsi turistici, dove i viaggiatori possono immergersi in una atmosfera incantata e utopistica, priva di odio, invidia, competizione, diffidenza.

Vang Vieng, agli inizi della sua vocazione turistica, sembrava inspirarsi a questo mito: le guesthouse e gli alberghi sorgevano proprio in mezzo alle capanne degli autoctoni; la natura che la circondava era (ed è ancora) meravigliosa, metteva quasi soggezione per quanto fosse grandiosa e prepotente; le galline e le anatre erano dappertutto, libere e spensierate come mai si erano viste prima; e le ragazze del luogo si lavavano i capelli nei fiumi con il candore e la compostezza di un quadro di Gauguin…

Poi è arrivato il vento degli affari, sospinto dagli investimenti che stavano cambiando radicalmente l’economia del Laos. Adesso Vang Vieng è una cittadina turistica come tante altre. Forse più genuina di molte altre, è vero, ma non del tutto incontaminata. Da meta imperdibile dei viaggiatori zaino in spalla si è trasformata nella capitale del rave e della droga libera del sud est asiatico. Il posto ideale dove fermarsi qualche giorno a bere, fare tubing e kayak sul fiume Nam Xong, ballare fino alle tre del mattino nei numerosissimi locali che sorgono nel centro del villaggio, uno appresso all’altro.

Il passatempo più in voga, a parte il tubing e i rave notturni, consiste nel passare la serata distesi su particolari lettini di bambu, gustando bevande alla frutta corrette con marijuana e altre droghe più o meno sintetiche. Invito a visitare questi locali di pomeriggio, quando i bar e i ristoranti sono vuoti. Dall’esterno sembrano delle versioni all’aperto di fumerie d’oppio: la disposizione dei lettini rende infatti evidente che non ci sia alcuna possibilità di accomodarsi seduti come in qualsiasi altro luogo analogo. Qui l’avventore deve sistemarsi per lungo, direi supino, o al massimo su un fianco, come facevano i romani quando desinavano. Il che sembra l’unica posizione ragionevole dopo una serata in cui si è ingurgitato di tutto e di più.

Beninteso: non ci sono solo locali in cui si vendono bevande corrette. Allontanandosi dal centro, al contrario, si recupera un po’ di quell’atmosfera bucolica e silenziosa che probabilmente era la vera attrattiva di Vang Vieng in passato. I localini sono discreti, tranquilli, poco frequentati; si offrono in prevalenza pietanze laotiane, o al massimo cinesi, e ogni altra diavoleria gastronomica occidentale è quasi sconosciuta. Il frullato corretto è del tutto assente a tutto vantaggio della Lao Beer, l’ottima birra nazionale.

L’altra particolarità piuttosto bizzarra è che ogni locale presenta un maxischermo a svariate decine di pollici. Che non trasmette partite di calcio inglese, come in altri paesi vicini; nossignore, qui l’attività televisiva preferita è guardare di continuo tutti gli episodi della serie Friends in lingua originale. Pensavo sinceramente che fosse la solita esagerazione della Lonely Planet, invece l’ho appurato con i miei occhi: i telefilm vanno a ciclo continuo sui maxi schermi, e molti turisti sembrano apprezzarne la visione, specie dopo l’ennesimo bibitone.

Si tratta insomma dell’adesione collettiva ad un modello che, in origine, era il top dell’originalità e della ribellione giovanile. Oggi è divenuto un ennesimo modo per assimilarsi ad una moda. E’ una nuova forma di conformismo che ci fa credere di essere indipendenti quando invece siamo finiti nell’ennesimo recinto di pecore e caproni da cui pensavamo di scappare…

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