L’artigianato birmano, fra tradizione, religione e business

Una passeggiata per le vie di Mandalay può offrire una istruttiva ed esauriente visione d’insieme dell’artigianato birmano. Non sarà difficile farsi accompagnare a visitare gli opifici, le fabbrichette, le officine arrangiate che pullulano un po’ dappertutto. Per i birmani è un punto di onore condurre i turisti presso i luoghi in cui – a parer loro – si realizza il meglio della produzione artigianale del paese.

Le vie, come in quasi tutta l’Asia, sono organizzate per categoria merceologica. Ci sono strade interamente occupate dalla produzione del legno, altre del marmo, altre ancora dell’argilla, o del bronzo, dell’oro, e così via. Non sembra esserci limite alla produzione di manufatti; penso sia possibile trovare quasiasi oggetto si cerchi, basta avere pazienza e fare assegnamento su una guida preparata. E comprendere come funziona la complessa creatività birmana. Un aspetto, infatti, balzerà quasi immediatamente all’occhio: l’ossessiva ripetitività dei modelli e degli schemi di realizzazione di qualsiasi oggetto, dal più grande e imponente al più minuto e insignificante.

Un bronzista prepara il calco di argilla

Il giro di solito inizia visitando gli artigiani del bronzo, poi quelli del marmo, del legno, del tessuto. Si conclude quasi sempre nelle piccole fabbriche dove si lavora l’oro destinato alle funzioni religiose. Devo dire niente di speciale rispetto a quanto già visto in Thailandia o India. I metodi di lavorazione sono tradizionali, a volte fin troppo, ma non presentano particolarità specifiche, malgrado le guide si affannino a dichiarare il contrario. Ma ciò che lascia quantomeno perplessi è la ripetizione, declinata all’infinito, di riproduzioni sempre uguali; non solo nello stesso opificio, ma addirittura in tutti gli opifici che realizzano lo stesso oggetto.

La cosa è particolarmente evidente per i marmisti e i bronzisti. Il soggetto delle loro sculture è sempre lo stesso: il Buddha in tutte le sue varie rappresentazioni (che non sono molte): seduto in meditazione, in piedi con le braccia tese, in piedi con un braccio alzato, seduto con la mano a terra, adagiato su un fianco, con gli occhi chiusi, aperti… E basta. L’unico elemento di variabilità è l’espressione del volto, e anche qui siamo al minimo indispensabile: sorridente o serio. Il resto è pressoché uguale.

La via dei marmisti

Vabbè, si potrebbe pensare che sto esagerando. Non proprio. Ci spostiamo più in là: nuovo negozio e stessi soggetti. Buddha di tutte le forme e dimensioni, molte solo appena accennate. Sonny ci dice che sono le basi, preparate in anticipo, prima ancora che il prodotto finito non solo sia venduto ma anche richiesto. Tanto si sa, il soggetto non cambierà mai e quindi è meglio portarsi avanti con il lavoro, come si suol dire… Ogni tanto salta fuori una scultura di cavallo o di donna danzante, tipo tempio indù, ma sono davvero trascurabili eccezioni. A quanto pare la domanda si concentra quasi esclusivamente su un unico prodotto: il Buddha da salotto, da giardino, da ingresso, da altarino familiare; oppure da donare ad un tempio vero, come forma di offerta rituale. E l’offerta si adegua.

Tutto ciò mi ha fatto pensare ad un altro momento decisivo della storia umana, quando tutti gli artigiani erano sottoposti ad un unico regime creativo imposto dalla religione e dalle convenzioni: l’antico Egitto. Anche allora, infatti, l’arte era rigidamente regolata dalle norme estetiche imposte dai sacerdoti: le figure erano invariabilmente impersonali, le fattezze eliminate e ridotte ad un canone astratto, le posizioni di uomini e animali limitate a poche varianti.

Quello che ho visto nei mercati artigiani di Mandalay mi ha indotto a pensare che anche laggiù tutto fosse ridotto ad un canone unico, ripetitivo, volutamente inespressivo. Una arte limitata alla sola rappresentazione del Buddha e di pochi altri spiritelli, e questo ininterrottamente da secoli, a giudicare le immagini e le sculture presenti nei templi, anche in quelli più antichi. Creare oggi qualcosa di diverso sembra impossibile, forse perfino proibito…

Una operaia alle prese con la filettatura dell’oro

Ad ogni modo, il nostro pomeriggio alla scoperta dell’economia vitale di Mandalay si è concluso nel luogo in cui ciò che ho appena descritto trova la sua logica conferma: le fabbriche di lamine d’oro. Questa è francamente la produzione più controversa che ho mai visto in tanti anni di viaggi. A Mandalay esistono botteghe, negozietti, vere e proprie fabbriche specializzate in un unico prodotto: le lamine sottilissime d’oro a 18 carati che i fedeli usano per ricoprire le varie statue del Buddha della città, a cominciare da quello ospitato nel Mahamuni Paya, di cui ho già parlato. Ce ne sono una infinità, in tutta la città, il che fa pensare che la domanda sia elevatissima. E questo non può che lasciare perlomeno sbigottiti, se pensiamo che il reddito medio di un birmano permette poco più che la mera sopravvivenza.

La lamina viene ricavato da un blocco all’apparenza molto malleabile, ridotta in scaglia di uno-due centimetri di superfice e di pochissimi millimetri di spessore, raschiata e pulita con uno spazzolino da denti. Tale processo la rende facilmente deformabile e quindi pronta per essere incollata all’immagine sacra a cui è destinata. Ogni lamina è confezionata in una bustina trasparente e venduta a peso. Sonny ci ha assicurato più volte che non si tratta di una spesa eccessiva, ma con tutta evidenza non poteva essere così, visto che l’oro, anche quello meno pregiato a 18 carati, valeva comunque qualche euro al grammo.

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