Il riso non è soltanto l’alimento principale di quasi tutta l’Asia. E’ anche una abitudine di vita, un modo di identificarsi con la propria terra, le sue tradizioni, la sua cultura. Ciò è tanto più evidente in Myanmar, dove in molte zone la sinbiosi tra i birmani e il riso è pressoché totale.
Il nostro lungo viaggio in automobile ci ha dato modo di venire in contatto diretto con questa simbiosi. Malgrado siano presenti altre coltivazioni, è indubbio che in larghe zone del paese l’unica pianta coltivata sia il riso. Specialmente in pianura. Per chilometri e chilometri il panorama che si presenta ai nostri occhi è sempre lo stesso: campi di tutte le dimensioni, a volte allagati, a volte asciutti; e dove il riso è in crescita il suo colore vivo domina su tutto, con gradazioni verdi, gialli o marroni a seconda dello stato di maturazione.
La tipologia di campo è sempre la stessa: una zona vagamente rettangolare, dai bordi irregolari, delimitata da bassi terrapieni e irrigata alla belle e meglio tramite canali limitrofi. I campi di riso più vasti sono disposti in serie, uno dietro l’altro, per sfruttare al meglio il flusso d’acqua dei canali. In Myanmar mancano quasi del tutto i terrazzamenti, come nei paesi vicini.
La maggior parte degli appezzamenti sono minuscoli, non più grandi un un campo da tennis, o forse meno. Ospitano in un angolo una capannuccia sgangherata, dove depositare gli attrezzi. Alcuni sono circondati da alberi di banane o palme da zucchero: una evidente – se pur minima – forma di diversificazione agricola.
Una immagine che mi è rimasta impressa e che sono riuscito a immortalare in uno scatto, è quella di un padre e i suoi figli mentre lavoravano il loro appezzamento con un aratro rudimentale. I due bambini erano integralmente nudi e affondavano le gambe nella mota fino quasi all’inguine. L’aratro sembrava assemblato alla buona con qualche ramo d’albero appena tagliato. Gli unici che sembravano in salute erano i due buoi, probabilmente l’unico patrimonio di valore dell’azienda.
Quella scena mi ha reso evidente che il riso viene coltivato e lavorato da secoli sempre allo stesso modo. Può cambiare il tipo di aratro, oppure il tipo di animale da tiro utilizzato (bufali o buoi); magari qualcuno possiede un trattore a motore, di marca cinese. Tuttavia, le varie fasi della lavorazione sono sempre le stesse, determinate dai tempi e dalle esigenze della natura. L’uomo – è proprio vero – è solo un fattore della produzione.
Anche il modo di ottenere il prodotto finale è lo stesso da sempre. I birmani svolgono dei grandi teloni sulle poche superfici sgombre da alberi e lontani dai campi inondati. Qui scaricano i chicchi di riso greggio per poi stenderli accuratamente con delle scopette lungo tutta l’area disponibile. In questo modo raggiungono due risultati: essiccano il riso e allo stesso tempo lo separano dalla sua buccia. Questi appezzamenti di colore giallo vivo sono molto frequenti lungo le strade del Myanmar centrale. A volte i contadini provano anche ad invadere parte della carreggiata, pur di ottenere maggior spazio libero per questa vitale operazione.
Della pianta di riso, ovviamente, non si butta niente. Tutto ciò che viene scartato, in realtà, rimane a disposizione per altri usi. La paglia, come testimoniano le foto della galleria sottostante, è ammassata in enormi covoni e poi venduta come foraggio o base per la preparazione di oggetti casalinghi. La paglia viene anche utilizzata come riempimento dei materassi usati dai contadini.
Insomma, il progresso, in questa attività, sembra essere rimasto fuori a guardare, senza aver avuto mai l’opportunità di intervenire. Il progresso, in Myanmar, si è fermato al bordo delle strade.