Cosa vedere a Vang Vieng tra un tubing e l’altro

E’ indubbio che l’attività principale di Vang Vieng sia il tubing. Una pratica che sta riscuotendo notevole successo, ultimamente, specie se la località è provvista di un fiume dalle acque calde, cristalline e poco insidiose. Caratteristiche tipiche del Nam Song, il fiume di Vang Vieng, almeno fin quando non giunge la stagione delle piogge.

Il tubing, ricordiamolo, consiste nell’infilarsi dentro una camera d’aria di un camion e lasciarsi sospingere dalla corrente fino a valle. Il piacere sta nel poter trascorrere qualche momento di piacevole frescura senza praticamente fare nulla, cullati dalle acque e baciati dal sole. Il rovescio della medaglia sta nel ritorno: una volta arrivati a destinazione è obbligatorio quasi dappertutto riportare indietro il ciambellone che adesso, trasportato sulle spalle, diventa improvvisamente un peso ingombrante e fastidioso. E tanto è più lungo il piacere del percorso di andata, tanto più difficoltoso sarà il ritorno a piedi e – spesso – anche in salita.

Kayaking (in favore di corrente) a Vang Vieng

Ma il tubing non è l’unica cosa da fare a Vang Vieng. C’è anche il kayaking, che permette di visitare villaggi, cascate, grotte che a piedi sarebbe arduo raggiungere. Anche qui la controindicazione sta nella natura stessa dell’attività: se i muscoli reggono, allora niente di speciale, si tratta di un’attività divertente e tonificante come poche. Ma se le forze non sono adeguate allo sforzo, allora il kayaking diventa una sofferenza, tanto più che il fiume in discesa è una cosa, contro corrente un’altra. Quindi anche qui occhio a valutare correttamente lo stato del fiume e  – sopratutto – della vostra forma fisica.

La grotta di Tham Phu Kham

Ma il divertimento maggiore sta nell’esplorare le numerose grotte che si trovano nei dintorni di Vang Vieng. Non si tratta di trasformarsi in speleologi di professione, beninteso, ma di seguire una serie di facili itinerari descritti convenientemente in tutte le guide di viaggio. Devo confessare che è stata questa l’attività che mi ha incuriosito più di ogni altra. D’altronde il tubing mi è sembrato uno sport abbastanza noioso; quanto al kayaking non mi sentivo all’altezza; le altalene e le corde sospese sul fiume – altra attrattiva turistica in voga – erano un divertimento infantile e qualche volta pericoloso.

L’idea di fondo non era quella di esplorare tutte le grotte ma di visitarne almeno una, la più celebre, quella che i laotiano chiamano “Laguna Blu”. Questo nome deriva dallo specchio d’acqua che sorge ai piedi del massiccio calcareo all’interno del quale si forma il fiume sotterraneo che lo alimenta. Questo ameno laghetto è frequentato da locali e turisti, che lo usano indifferentemente per lavarsi e/o fare il bagno, senza che l’attività dell’uno interferisca in alcun modo con quella dell’altro.

La Laguna Blu (in effetti verde)

Il luogo si raggiunge noleggiando un motorino o un jumbo (un furgoncino locale), ed è piuttosto distante da Vang Vieng. Per raggiungere Tham Phu Kham (grotta della Laguna Blu in laotiano), bisogno innanzitutto attraversare uno dei ponti traballanti che scavalcano il Nam Song e recarsi sulla riva opposta al villaggio. Da qui il percorso è obbligato e conduce all’ingresso della località, rigorosamente a pagamento. Si lascia il mezzo e si prosegue a piedi verso lo specchio d’acqua che di azzurro in realtà ha ben poco. E’ un laghetto di modeste dimensioni sopra il quale penzolano corde e altalene a uso e consumo dei turisti. Niente di speciale se non fosse per il fatto che è pieno di pesci di grosse dimensioni.

Ciò che è notevole, al contrario, è la caverna che sovrasta questo specchio d’acqua. Per raggiungerla bisogna inerpicarsi per almeno 200 metri lungo un sentiero che più sconnesso e ripido non si può immaginare. Mia moglie, infatti, ha immediatamente rinunciato alla scalata lasciando a me l’onere di raggiungere l’entrata della grotta. Ciò che ho visto mi ha lasciato senza fiato, e non solo per la fatica di averlo raggiunto. La cavità centrale, appena visibile dal di fuori, sembrava enorme e piena di massi contorti, stalattiti, stalagmiti. Al centro, tuttavia, si distingueva un baldacchino con un Budda dorato disteso sul fianco.

Discesa all’inferno e ritorno

Mi sono detto: sono arrivato fino a qui e non provo neppure ad entrare? Non sia mai! Ho cominciato a scendere nell’antro della caverna e mai avrei creduto che la parola “antro” potesse descrivere così efficacemente la sensazione di straniamento che stavo provando. Man mano che mi inoltravo nella grotta, infatti, la luce scemava sempre di più e il buio cominciava ad avvolgere tutto, anche le zone che prima sembravano sufficientemente illuminate. Ogni oggetto diventava sempre più grande e mostruoso: i massi che avevo visto dall’alto, infatti, sembravano gonfiarsi man mano che mi avvicinavo, così come le bizzarre strutture calcaree che penzolavano dal soffitto. L’entrata era diventata un buchino bianco appena visibile, cosa che mi ha messo subito in agitazione, perché improvvisamente mi ha aperto gli occhi su quanta strada avrei dovuto compiere a ritroso, e in salita per di più.

Il fondo della caverna con il Budda disteso

Nondimeno, ho continuato a scendere. Ormai mancavano pochi metri, il baldacchino era a portata di mano e – ciò che contava di più – di scatto fotografico. Uno sforzo che mi è costato parecchie energie, dato che l’ultimo tratto prevedeva l’aggiramento di una specie di enorme pilastro la cui base era completamente immersa nell’oscurità, e non sapevo dove mettere i piedi. Alla fine, però, ho raggiunto la meta e la foto che segue dimostra l’avvenuto raggiungimento dello scopo.

Il Budda di bronzo, con le povere offerte dei fedeli

La risalita verso l’imboccatura è stata più facile e rapida del previsto. Come sempre accade, quando abbiamo davanti l’ignoto, il misterioso, il potenzialmente pericoloso, ogni cosa appare difficile e penosa. Ogni passo è più lungo e pesante del previsto; il respiro più affannoso; lo scalino più ripido di quanto lo sia realmente. Ma quando l’ignoto è svelato, l’oscurità squarciata dalla luce, il mistero ormai dissolto dalla conoscenza, ecco che accade il miracolo: gli scalini diventano praticabili, il buio meno oppressivo, le distanze più umane.

E così il mio ritorno alla luce è avvenuto con leggerezza e direi quasi spensieratezza. L’unico postumo negativo: il tremore alle gambe, dovuto all’enorme sforzo di tenermi in equilibrio durante le varie fasi dell’avventura. Un disagio ampiamente compensato dalla consapevolezza di essere riuscito a raggiungere il famoso Budda di Than Phu Kham…

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