La Terra Santa vista dal Monte Nebo

Esiste un luogo in grado di emozionare anche un ateo incallito come me. E’ il Monte Nebo, uno dei luoghi più sacri e venerati da tutte e tre le religioni monoteiste. Il punto in cui Mosè, alla fine del lungo viaggio che condusse gli ebrei fuori dall’Egitto, fu costretto a fermarsi e a morire ad un passo dalla agognata Terra Promessa. Il perché non è chiaro – e a quanto pare anche l’odierna teologia, sia cattolica che protestante, ne dibatte ancora motivazioni e conseguenze, senza tuttavia trovare una spiegazione quanto meno razionale.

Secondo la Bibbia (Libro dei Numeri, Deuteronomio), sembra che Mosè dovesse scontare un anatema divino a causa di una “grave” mancanza da lui commessa qualche tempo prima. Cos’era successo? Gli israeliti si lamentavano per le privazioni a cui erano soggetti e per la mancanza d’acqua; erano arrivati perfino al punto di rimpiagnere la “schiavitù” egiziana… Il povero Mosè si trovò quindi per così dire tra l’incudine e il martello, dovendo mediare tra un Dio irascibile e permaloso e un popolo che non ne poteva più di girovagare da quarant’anni senza meta per il deserto. E bastò una semplice indecisione, appena una lieve esitazione nell’eseguire un ordine proveniente direttamente dai piani alti (quello di far sgorgare l’acqua da una roccia) per giocarsi irrimediabilmente la possibilità di entrare anche lui in Terra Santa.

Lasciando da parte le convinzioni personali su questo e altri episodi analoghi del Vecchio Testamento, il Monte Nebo è un luogo affascinante sotto molti punti di vista. Innanzitutto per i meravigliosi panorami che è possibile ammirare dai suoi contrafforti. Arrivati in cima, infatti, sorge una vasta piattaforma moderna che si affaccia direttamente sul Mar Morto, il fiume Giordano, Israele e – nei giorni più tersi – perfino su Gerusalemme e il Mar Mediterraneo. In un’unica visione, insomma, è possibile ammirare quasi 5000 anni di storia!

Il luogo è indubbiamente affascinante ma non è semplice restare a lungo lassù, dedicandosi all’osservazione di ogni angolo della vallata sottostante. Un vento caldo e secco, quasi sempre molto forte, investe con violenza la piattaforma e rende problematico restare in piedi, perlomeno in alcune zone più esposte. Non è raro vedere cappelli e kefiah volare via dai rispettivi proprietari. In compenso, il vento spazza via nubi e foschie, rendendo quasi sempre perfettamente visibile il panorama circostante.

Sul Monte Nebo si trovano i resti di un’antica basilica costruita dai primi cristiani nel IV secolo d.C, la Basilica di San Giorgio. Questo sito fu un importante centro di pellegrinaggio, come testimoniano le numerose rovine tutte intorno. L’antica chiesa bizantina è stata più volte ricostruita e l’ultimo restauro risale al 2000. Il risultato è un edificio piuttosto anonimo che ha avviluppato, per così dire, la costruzione precedente. Un lavoro che a prima vista appare dozzinale, perfino oltraggioso, rispetto a ciò che rappresenta e ai resti che la circondano. Ma questa impressione lascia presto spazio alla meraviglia quando si varca l’ingresso della chiesa.

L’interno, infatti, è un capolavoro di restauro moderno e intelligente, attento sia alla ricostruzione storica che alla funzione religiosa che ancora oggi la chiesa riveste. Quanto si entra, infatti, sembra di tornare indietro nel tempo: un soave canto gregoriano eccheggia all’interno, mistico e ipnotico quanto basta per rendere il luogo più sacro di quanto non lo sia già. Sembra di essere piombati in pieno periodo delle Crociate! In fondo, sorge l’antico abside semicircolare, con i gradini sui quali sedevano i monaci; ai lati, due colonnati rendono piuttosto bene l’idea di quanto fosse maestosa e importante questa basilica per i cristiani dell’epoca.

Inutile dire che anche qui, sul Monte Nebo, i mosaici la fanno da padrone. E ce n’è uno, in particolare, che rappresenta il meglio della produzione romana d’oriente nel periodo immediatamente precedente alla conquista araba. Si tratta del mosaico raffigurato nell’immagine sopra, che mostra una vasta gamma di scene, tra cui cacce, pastorizia e rappresentazioni simboliche della vita quotidiana. La parte più interessante è quella che raffigura alcuni animali esotici. I primi due dell’ultima fila sono senz’altro uno struzzo e una zebra. Ma invito a dare un’occhiata all’ultimo quadrupede in basso a destra. Si tratta di un dromedario, a prima vista, ma con un mantello maculato come quello di una giraffa. Probabilmente i valenti artigiani che hanno creato questo capolavoro avevano le idee confuse oppure – cosa assai più probabile – hanno creato una figura animale seguendo le indicazioni di chi dichiarava di averlo visto. O forse esistevano dromedari maculati che oggi si sono estinti?

 

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