Dalle metropoli ai più sperduti villaggi rurali, l’offerta culinaria in Cina è praticamente infinita. Il paese è così vasto e variegato che non c’è luogo, sia pure minuscolo, che non possieda una propria tradizione gastronomica, unica, specifica, inimitabile e spesso introvabile altrove. Come la cucina tibetana, per fare un esempio, che negli ultimi anni ha raggiunto le vette del gradimento di cinesi e stranieri grazie alla proliferazione di ristoranti in tutto il paese. Certo, una cosa è gustarsi le deliziose coste di Yak marinate nello yogurt e rosolate a fuoco lento su un braciere di aghi di pino direttamente in Tibet, un’altra è farlo in un anonimo locale di Pechino o Shanghai.
Il Makye Ame di Pechino è il compromesso più onorevole in circolazione. Non è l’unico ristorante tibetano della capitale, ovviamente, ma sicuramente è quello che rispetta, più di ogni altro, le tradizioni culinarie della regione. Questo ristorante, celebre non solo per la sua cucina, ma anche per l’atmosfera unica che riesce a ricreare, è diventato negli ultimi anni un punto di riferimento per chi desidera un’esperienza gastronomica diversa, più genuina, arricchita da iniziative culturali di tutto rispetto. Il Makye Ame di Pechino non è solo un luogo in cui mangiare tibetano, ma anche il posto ideale dove realizzare una “full immersion” a 360 gradi nella cultura tibetana.
Il passaggio dalla Cina al Tibet è evidente fin dai primi passi all’interno del locale. Ogni minima parte del ristorante è decorato con cura, riproducendo l’estetica tibetana con tessuti riccamente colorati, murales religiosi, e arredi che richiamano i monasteri buddisti. Gli ospiti, varcando la soglia del Makye Ame, si ritrovano immersi in un ambiente che richiama immediatamente le atmosfere rarefatte e spirituali delle montagne tibetane. La sala principale, non particolarmente ampia, contiene una ventina di tavoli, non di più, disposti in gran parte al centro e addossati alle pareti. In fondo si vede un palco, leggermente rialzato, utilizzato per gli spettacoli di intrattenimento.
Le cameriere sono quasi tutte di origine tibetana. Lo si capisce dai tratti somatici peculiari: il naso dritto, gli zigomi alti, gli occhi ampi e distanziati… tutti elementi che contribuiscono a consolidare il mito della bellezza tibetana, da sempre molto apprezzata dagli stessi cinesi di etnia Han. Queste ragazze vestono abiti tradizionali, all’apparenza piuttosto ingombranti, ma che non sembrano impacciarle nel servire i tavoli. Svolazzano tra i clienti con grazia e leggerezza, sempre sorridenti ed estremamente gentili.
Quanto alla cucina, c’è poco da dire. Il Makye Ame offre tutte le specialità tipiche della regione, dalle più celebri a quelle meno conosciute. Vale la pena, una volta consultato il menu, fare come i cinesi: farsi portare un piatto per ogni specialità che si intende provare e poi mangiarlo tutti insieme. Tra i piatti più celebri si trovano i momo, i ravioli tibetani ripieni di carne o verdure, serviti al vapore o fritti. Per chi preferisce i noodles, ecco il thenthuk, una zuppa di tagliatelle a base di carne di yak o manzo, servita generalmente in una pentola bollente da cui prelevare il contenuto e versarlo nella propria ciotola. E’ una vera prelibatezza, così tipicamente tibetana, tuttavia più adatta ai climi rigidi delle terre del Tibet che all’afa di Pechino in piena estate…
Ma il piatto principe del locale sono senza dubbio le costate di yak arrosto, servite con verdure, patate al forno e una salsa a base di yogurt (sempre di yak). E’ sicuramente il piatto più caro del menu, ma vale la pena provarlo. La carne di yak, quando marinata in erbe aromatiche e yogurt e arrostita su carbonella aromatizzata, ha un gusto unico, inimitabile. Assomiglia un po’ all’agnello, ma risulta molto più tenera e succosa. Una variante, anch’essa molto richiesta, è la carne di Yak stufata con verdure e porri.
Accennavo prima alla presenza di un palco. E’ lì che, ad una certa ora della sera, iniziano ad esibirsi alcuni figuranti vestiti in abiti tradizionali. Gli spettacoli si susseguono senza soluzione di continuità tra l’indifferenza quasi assoluta degli avventori, più interessati a chiacchierare tra di loro o a mangiare. Si compongono di varie scene in cui si alternano canti e danze più tradizionali a esibizioni moderne, con artisti che recitano poesie o cantano canzoni dalle armonie più occidentali. I musicisti, che malgrado la base musicale sembrano suonare davvero i loro strumenti, ogni tanto lasciano il palco e iniziano a circolare tra i tavoli, rendendosi così disponibili a foto e selfie con i clienti.
Un divertente intermezzo è costituito da un gioco che coinvolge gli avventori. Vengono invitati a salire sul palco alcuni malcapitati e costretti a imitare i gesti dei ballerini o perfino a cantare alla maniera tibetana. Il risultato è molto divertente (per chi assiste, ovviamente), meno per chi partecipa a questo gioco delle parti. Ho notato comunque che i cinesi amano farsi coinvolgere in queste situazioni. Ogni volta che il presentatore chiedeva chi volesse partecipare, era tutta una alzata di mani da ogni tavolo, e a volte si presentavano contemporaneamente in due o tre persone, ansiose evidentemente di rendersi ridicole davanti ai propri amici.
Alla fine della serata avviene lo spettacolo forse più coivolgente. Le cameriere si dispongono in un cerchio virtuale che circonda l’intera sala e iniziano a ballare girando in tondo, muovendosi con grazia e misura, al ritmo di una musica etno-trance tibetana. Invitano gli avventori ad unirsi alla danza e molti, grazie forse all’abbondante birra ingurgitata nel corso della serata, accettano entusiasticamente. In breve il cordone diventa una specie di trenino di Capodanno, in cui le ragazze tibetane continuavano imperterrite a ballare secondo i proprio canoni, mentre il resto dei ballerini, cinesi e stranieri, improvvisavano movenze e passi tra i più strampalati e bizzarri, divertendosi un mondo.